La prima è una specie di dichiarazione di resa. Facebook così come è adesso – ci sta dicendo Zuckerberg senza dirlo – non potrà continuare. È tardi. Tutto è sfuggito di mano: i tentativi presuntuosi e un po’ sciocchi, figli dell’usuale determinismo tecnologico della Silicon Valley, di governare la complessità e la schizofrenia degli umani attraverso algoritmi o controllori in carne ossa, sono destinati a produrre ulteriori fallimenti. E non si tratta di piccole cose ma di severe censure governative, ampie perdita di reputazione nelle stanze dei bottoni e, soprattutto, grosse multe in denaro sonante che stanno per arrivare e potrebbero moltiplicarsi.
Potrà una comunità di miliardi di persone diversissime fra loro essere governata da un’intelligenza tanto artificiale da non distinguere un’immagine pornografica da una copertina dei Led Zeppelin o da un quadro di Courbet? Potrà impiegare risorse umane crescenti a comminare sospensioni e censure a caso a utenti scalmanati che si offendono fra loro in idiomi semisconosciuti, ognuno dei quali con 15 amici e 10 lettori? La risposta è: probabilmente no. Facebook è diventata troppo grande e ha raccolto troppa attenzione (in tutti i sensi) tanto che oggi si è trasformata in un’enorme bomba ad orologeria. E il suo newsfeed, che tante speranze aveva scatenato negli editori e nei giornalisti, oggi è ormai il deposito dei detonatori.
La seconda dichiarazione non detta da Zuckerberg è che la sua azienda manterrà il suo core business, vale a dire – lo ricordo – raccogliere e rivendere il maggior numero di informazioni possibili su chiunque passi da quelle parti, ma lo rivolgerà alle nostre comunicazioni private: un luogo meno ampio e conflittuale nel quale, si spera, saranno meno rilevanti i contenziosi della piattaforma con i suoi utilizzatori, con le altre aziende e con i governi del mondo. Le informazioni che Facebook riuscirà a raccogliere forse saranno meno, forse sarà più difficile collezionarle rispetto a prima ma il lavoro resterà lo stesso.
Tutto questo ovviamente non ha nulla a che fare con la nostra riservatezza. Per la semplice ragione che la privacy e Facebook (e i social network in genere) sono da sempre mondi lontanissimi in una relazione lineare. All’aumentare dell’uno si ridurrà l’altro. Così probabilmente uno slogan adatto a tutti noi per i nostri prossimi anni digitali potrebbe essere “The future is privacy”: un luogo nel quale, in una maniera o nell’altra, i nostri dati smettano di essere moneta di scambio in cambio di imperdibili servizi. Abbiamo visto che non funziona, non in quest’ordine di grandezza, ci siamo accorti che non è sano e crea un sacco di ingiustizie. Pensiamo a qualcosa d’altro. Cominciamo a pensarci adesso.