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Perchè i dipendenti non vogliono tornare al lavoro dopo il Covid? La ricerca di Hacking Talents

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Hacking Talents, startup fondata a dicembre 2021 da Federica Pasini e Teresa Baldini, ha pubblicato una ricerca che riunisce molti studi sulla famosa Great resignation

Hacking Talents, startup fondata a dicembre 2021 da Federica Pasini e Teresa Baldini, ha pubblicato una ricerca che riunisce molti studi sulla famosa Great resignation

Lavoro
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Anna Gaudenzi
4 mar 2022

Che cosa sta succedendo ai lavoratori di tutto il mondo dopo il Covid? In questi mesi di lento rientro sono in molti ad aver notato e studiato una fenomeno nuovo e che coinvolge fasce lavorative di tutte le età. Si tratta della Great Resignation, un trend economico attuale, diffuso dall’inizio del 2021 principalmente negli USA, per cui i dipendenti si dimettono in massa e volontariamente dal posto di lavoro.

Ma come mai questo accade e come le aziende possono invertire questa tendenza? Se lo sono chieste le founder della neonata startup Hacking Talents che si occupa proprio di creare percorsi di ascolto e di mentorship dedicati ai talenti e alle aziende. Federica Pasini e Teresa Baldini hanno lavorato a un paper (potete scaricarlo sul sito),  in cui hanno raccolto moltissime ricerche uscite sul tema portando i dati a fattor comune e aggiungendo ricerca fatta su 450 persone coinvolte tramite il loro sito.

“Abbiamo cercato tutte le fonti che hanno raccolto dati sul big quit – ci dice Teresa Baldini – perchè ci interessava capire quanto il fenomeno fosse studiato e diffuso e quale base scientifica ci fosse dietro”.

I dati emersi ci raccontano di una popolazione in età lavorativa che sempre di più non vuole tornare al posto di lavoro che è stato costretto  a lasciare prima della emergenza sanitaria. Secondo uno studio pubblicato sul MIT Sloan Review all’inizio del 2021 più del 40% di tutti i dipendenti stava pensando di lasciare il lavoro, e con il passare dell’anno, il numero di lavoratori che ha richiesto le dimissioni ha raggiunto livelli senza precedenti. Ad esempio, in USA, 1 americano su 4 ha lasciato il proprio lavoro tra aprile e settembre 2021.

Il fenomeno della Great Resignation c’è anche in Italia

Su un campione di 450 individui, Hacking Talents ha rilevato nel panorama italiano che il 31% è interessato a trovare un nuovo lavoro, il 31% vuole riposizionarsi professionalmente e il 26% si sente perso ed in cerca di ispirazione. Infine, solo il 13% del gruppo considerato ha dichiarato di voler cambiare professionalmente rimanendo con all’interno della stessa organizzazione.

MIT Sloan Review ha svolto un’analisi approfondita riconoscendo che la principale causa della Great Resignation risiede in un fattore esterno a sua volta influente sul grado di benessere del singolo e che i tassi di dimissioni risultano alti in media, ma non uniformi tra le aziende variando tra il 2% e il 30%.

L’industry di riferimento è in grado di spiegare parte di questa variazione ma non la totalità: anche all’interno della stessa area di business, si osservano differenze significative. Per esempio la probabilità che i lavoratori di Tesla lascino il proprio lavoro è 3,8 volte quella dei dipendenti di Ford, mentre quelli di JetBlue il doppio rispetto a Southwest Airlines.

Ma che cosa cercano i dipendenti in un posto di lavoro?

Passiamo la vita a lavorare oltre 8 ore al giorno e spesso non basta un salario più alto ad attirare le persone in azienda: una cultura aziendale tossica, per esempio è 10,4 volte più potente della retribuzione nell’influenzare il tasso di dimissioni di un’azienda.

Ci sono alcuni fattori di benessere in azienda che spesso non vengono considerati: i lavoratori richiedono job crafting, ossia personalizzazione sul lavoro: solo il 49% dei lavoratori riporta di aver ricevuto una valutazione sul proprio lavoro. I lavoratori vogliono istruzione, esperienza ed formazione. Solo il 16% dei dipendenti dice di avere continue conversazioni con i loro manager sulle loro carriere, nonostante i dipendenti ascoltati dal proprio manager riportino il 62% in meno di probabilità di burnout.

Per i lavoratori flessibilità e benessere combinati non hanno prezzo: nel Regno Unito solo il 6% della forza lavoro svolge ancora una giornata lavorativa dalle 9 AM alle 5 PM. “Un dato molto significativo – ci dice Federica Pasini-  e che ci ha colpito particolarmente è che l’85% dei lavoratori dice di non avere il coraggio di dire la propria sul posto di lavoro. C’è paura di esprimersi e questo sicuramente non aiuta ad arrivare in ufficio felici”.

Lavoratori sull’orlo del burnout

C’è poi il problema del burnout. Secondo un sondaggio della società di tecnologia HR Workhuman (sempre riportato nella ricerca di Hacking Talents), il 64% delle persone ha sperimentato il burnout nella propria carriera e il 41% dei lavoratori ha detto di aver provato il burnout negli ultimi mesi. Sono numeri davvero impressionanti.

Esaminando come lo stress sul posto di lavoro influenza i costi sanitari e la mortalità, alcuni ricercatori della Stanford University hanno riportato che 615 milioni di persone soffrono in tutto il mondo di depressione e ansia, e questo ha un costo di 1 trilione di dollari ogni anno in termini di produttività persa.

L’American Psychological Association (APA) sostiene che i dipendenti che soffrono di burnout sono 2,6 volte più propensi a cercare attivamente un altro lavoro, il 63% più propensi a prendere un giorno di malattia e il 23% più propensi a rivolgersi al pronto soccorso.

La cultura aziendale rappresenta la discriminante principale per il benessere del dipendente. Comprendere i fattori che contano di più per le risorse può aiutare i leader a mantenere l’impegno dei dipendenti ed una cultura vivace durante la transizione verso la nuova normalità.

“La ricerca l’abbiamo intitolata il potere dell’Ascolto tramite la tecnologia perchè è proprio attraverso l’ascolto che le aziende possono avvicinarsi ai dipendenti- conclude Pasino – L’ascolto è importante per capire i bisogni e cambiare strategia. La tecnologia in questo ambito può essere un asset vincente”.

 

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