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5000 volontari in Italia, 150.000 nel mondo. Il loro mantra è il rispetto, la loro forza è il gruppo, la loro arma sono le azioni collettive su Facebook che, cavalcandone l’algoritmo, puntano a combattere le fake news e l’odio diffuso mettendo in campo parole positive, sane, vere. Questo è #iosonoqui, gruppo chiuso su Facebook, emanazione italiana di #jagärhär, il gruppo generato in Svezia dalla giornalista e scrittrice di origini siriane Mina Dennert che, presa di mira dagli odiatori su Facebook, mise a punto prima una strategia per affossare i commenti violenti sulla propria pagina e quindi, riscontratone il successo, la replicò sul social network con l’obiettivo di ripulirlo dall’odio e farne un luogo di confronto civile, equilibrato, gentile. Parliamo di #iosonoqui con Francesca Ulivi, giornalista, ex dirigente televisiva, vincitrice di diversi premi giornalistici tra cui quello alla memoria di Ilaria Alpi, che del gruppo è moderatrice e tra i fondatori.    iosonoqui2 scaled

Difendersi dagli odiatori in rete

Dunque Francesca, #iosonoqui organizza quotidianamente azioni per difendere le persone attaccate dagli odiatori o per sminare le conversazioni intrise di violenza verbale e disinformazione. Lo fa sfruttando a proprio vantaggio l’algoritmo di Facebook. In pratica, cosa succede?

Dopo che ha individuato una conversazione dove l’odio o le fake news stanno prendendo fortemente il sopravvento, pubblica un post sul gruppo attraverso il quale, spiegando cosa sta accadendo, invita gli attivisti ad agire, cioè a intervenire in quella stessa conversazione con le modalità e i contenuti chiariti nel nostro Manifesto.Tecnicamente l’attivista pubblica un primo, autonomo commento, quindi tutti gli altri come in uno sciame – queste azioni sono tanto più efficaci quanto più si fa massa, e quindi parlo di almeno duecento-trecento volontari coinvolti ogni volta  -, commentano il suo post o mettono una pioggia di like. La strategia, insomma, è riequilibrare la conversazione togliendo peso ai commenti violenti, mandandoli letteralmente in fondo, e portando in alto i nostri, tutti segnati dall’hashtag #iosonoqui. Perché l’azione sia efficace, oltre che scatenata dal maggior numero di attivisti nello stesso momento, serve che sia tempestiva e che dunque sia liberata quando il post nocivo è fresco, ancora all’inizio della sua parabola.

francesca ulivi

Secondo il Manifesto di #iosonoqui, voi siete politicamente neutrali e non supportate alcuna visione politica o religiosa. Perché il vostro obiettivo non è fare cambiare idea a chi commenta, ma cambiare il registro della conversazione.

Noi vogliamo contrastare l’intolleranza, la violenza, il razzismo, il sessismo, il pregiudizio, la disinformazione… Le nostre armi si chiamano counter speech e love bomb. Crediamo che rispondere a un odiatore con una contronarrazione razionale, educata e fattuale sia la strategia più efficace per bucare le maglie strette della rete dell’odio e permettere che siano attraversate dai commenti di chi esprime il proprio parere in maniera rispettosa. Vuol dire che se, in occasione di una sbarco di migranti, si fanno commenti disumani e si grida all’invasione di massa, noi riportiamo i numeri verificati delle persone sbarcate. Che se si mette in discussione la verità della pandemia, controbattiamo con le verità espresse dalla scienza. Quanto al cosiddetto love bomb, facciamo deliberate dichiarazioni di stima e affetto verso una persona presa di mira.

La pandemia cosa ha cambiato?

La pandemia ha esasperato i toni, ha fatto esplodere  intolleranza e irrazionalità. E ha riempito Facebook di fake news e complottismi incredibili. Ora, sono i medici, i ricercatori, gli scienziati a essere sotto il fuoco degli odiatori, e si aggiungono agli immigrati, alle donne, agli omosessuali.

Che relazioni avete con Facebook? 

Facebook conosce quello che facciamo. #noisiamoqui segnala a Facebook le situazioni più gravi e pericolose: per esempio, è riuscito a fare chiudere una pagina con video fake di Pronto Soccorso e ambulanze vuote postate da chi intendeva mettere in dubbio la realtà della pandemia.

Come si entra nella squadra di #iosono qui?

Si chiede di essere iscritti al gruppo, rispondendo a due domande: ovvero, perché lo si vuole fare e come si è venuti a conoscenza dell’iniziativa. A quel punto gli amministratori verificano che il richiedente abbia sui social un’identità chiara e una storia pulita, controllano cioè che sui profili non figurino prese di posizione che esprimono odio o affermazioni nel segno della disinformazione. Quindi, la persona viene ammessa nel gruppo.

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Visti da vicino, chi sono i volontari di #Iosonoqui?

Hanno tra i 30 e i 50 anni e direi che la composizione è molto varia. La preziosità del gruppo è proprio la sua diversità: dentro ci trovi anche tanti e tante che sono stati presi di mira nei social, perché sono donne, omosessuali, praticanti di una religione minoritaria. Certamente sono tutti molto motivati.

Il che è cruciale per reggere l’impatto con la massa di odio e violenza sprigionata dagli ambienti del web in cui i volontari si immergono.

Assolutamente. In alcuni di noi, dopo qualche tempo di attivismo, subentra stanchezza emotiva, esaurimento delle energie, lo stress tipico delle situazioni di burn out. Ai nuovi iscritti, infatti, che entrano nel gruppo con una gran voglia di fare e magari vorrebbero compiere azioni tutti i giorni, suggeriamo di andare piano, di agire per gradi, perché il rischio di esaurirsi in fretta è alto. Ma c’è una frase di Mina che ci illumina: dice che il coraggio è un muscolo e che scendere nell’arena per annegare l’odio lo allena e lo potenzia. Il gruppo, da questo punto di vista, restituisce ai singoli una forza incredibile. Perché serve moltissimo coraggio a scendere in quei buchi neri dove la violenza verbale è inaudita. Le parole di razionalità e rispetto sono diventate rare nei social network: invece, imparare il rispetto per l’individuo che in quel momento non si sta guardando negli occhi dovrebbe essere l’esercizio in cui impegnarsi tutti. Per me è una delle sfide della contemporaneità.