Due miliardi di persone nel mondo, cioè 2 persone su 7, vivono in luoghi di elevato stress idrico, dove cioè la domanda di acqua supera l’offerta in un dato periodo o in zone dove a scarseggiare non è l’acqua in generale, ma quella potabile. Secondo le più recenti stime delle Nazioni Unite, entro il 2030 saranno oltre 25 milioni le persone che non potranno più vivere in alcune delle aree più aride del pianeta.
Nulla di nuovo, viene da dire, e nella mente affiorano le distese deserte del Sahara o del Medio Oriente. In realtà invece il problema della scarsità dell’acqua non riguarda più soltanto le aree desertiche del pianeta, si tratta di un problema che ci riguarda tutti, Europa e Italia comprese. Un articolo pubblicato nel 2016 su Science Advanced evidenziava che il 70% della popolazione mondiale attualmente vive in condizioni di scarsità di acqua per almeno un mese l’anno. Fra queste aree anche molte regioni dell’Italia centro meridionale.

Fonte: Banca mondiale nel dossier "Uncharted Waters"
Sono due gli indicatori per valutare il livello di water scarcity in una data zona: se essa è lieve, moderata, significativa o grave, e quanti mesi abbraccia ogni anno. Secondo questo studio circa il 66% della popolazione mondiale, cioè 4,0 miliardi di persone, vive in condizioni di grave carenza idrica almeno 1 mese all’anno. Di essi, un miliardo vive in India e 900 milioni in Cina, 130 milioni in Bangladesh e Stati Uniti, 120 milioni in Pakistan e 110 milioni in Nigeria.

Fonte: Banca mondiale nel dossier "Uncharted Waters"
Il numero di persone che devono affrontare gravi carenze idriche per almeno 4 o 6 mesi all’anno è compreso tra 1,8 e 2,9 miliardi, mentre mezzo miliardo di persone affrontano una grave carenza idrica durante tutto l’anno. Si tratta da una parte di una delle conseguenze dei cambiamenti climatici dovuti al riscaldamento globale, ma è anche frutto di politiche di sfruttamento idrico non più sostenibili e di infrastrutture mancanti. Meno del 1,6% dei territori coltivati dell’Africa centrale sono equipaggiati con impianti di irrigazione. In Italia siamo oltre il 40%.

Con l’acqua infatti non solo ci alimentiamo e ci laviamo, ma produciamo energia e coltiviamo la terra, ed è lì che emergono gli empasse. Se la popolazione mondiale continua a crescere e di conseguenza cresce la domanda di cibo in un mercato ormai da un secolo non più basato sull’economia locale, come possiamo ridurre il nostro impatto idrico?
Come mostra un rapporto delle Nazioni Unite del 2018 che monitora l’andamento della situazione intorno al sesto degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 cioè “Acqua pulita e servizi igienico sanitari”, la maggior parte dell’acqua viene utilizzata oggi per l’agricoltura (il 69% del totale), un’altra parte per l’industria (il 19%) e solo una piccola parte (il 12%) per la vita quotidiana della popolazione.

Lo stesso vale per l’energia e forse dire “rinnovabile” non basta più, se il rinnovabile è idroelettrico. Il 10% dei prelievi annui di acqua a livello mondiale vengono impiegati per l’energia, un totale di 398 miliardi di m3 d’acqua. Un risparmio anche solo dell’1%, cioè di 4 miliardi di m3 d’acqua, fornirebbe acqua a sufficienza (50 litri al giorno) ogni anno per 219 milioni di persone.
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Una delle soluzioni che stanno adottando diversi paesi è la desalinizzazione dell’acqua di mari e oceani. Nel 2015 si sono contati 18 mila impianti in tutto il mondo, per un totale di 83 milioni di metri cubi d’acqua al giorno desalinizzata, e si prevede che ce ne saranno il doppio nel 2030. Il dibattito sulla lungimiranza di questa scelta è però vivace, sia per gli enormi costi energetici che questo processo comporta, sia per l’impatto dannoso sull’ecosistema marino, che per i costi elevati di questi impianti, anche se si prevede che questi ultimi diminuiranno del 60% nei prossimi 20 anni.
Cosa fare dunque? Rendere i sistemi più efficienti, riducendo prima di tutto gli sprechi. All’interno del già citato sesto dei 17 Obiettivi delle Nazioni Unite che compongono l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, è cruciale proprio il concetto di “water use efficiency”, ovvero rendere più efficiente il consumo di acqua, riducendo gli sprechi che non possiamo più permetterci. Il livello di water use efficiency è definito come il valore aggiunto lordo per unità di acqua utilizzata, espresso in dollari per metro cubo. La media mondiale è di 15 dollari per metro cubo di acqua, ma il gap fra i paesi ad alto e basso reddito è enorme. Europa e Nord America hanno un’efficienza elevata, pari a 38 dollari per metro cubo d’acqua e l’Oceania 50 ma l’Asia Centrale si ferma a 2 dollari per metro cubo. L’Africa subsahariana 7 e il Nord Africa 8, l’America Latina 13 e il resto dell’Asia 15 dollari per metro cubo.

C’è infine il problema dell’acqua potabile, a cui si aggiunge la difficoltà di accedere a servizi igienici dotati di sapone. In molti paesi la poca acqua disponibile è compromessa, con enormi conseguenze per la salute pubblica. Il principale problema è il Colera, la prima malattia che provoca epidemie in Africa. Le Nazioni Unite stimano che nel 2015 il 24% della popolazione in Africa Subsahariana abbia accesso all’acqua potabile in casa, il 54% possa accedervi al bisogno e che solo il 42% abbia la sicurezza che l’acqua sia libera da contaminazioni.