Se una rondine non fa primavera, un iceberg non fa certo i cambiamenti climatici. A fine settembre, un “pezzo” di ghiaccio più grande di Londra, esteso ben 1.582 km² (la capitale inglese copre “solo” 1.572 km²), si è staccato dalla piattaforma Amery, in Antartide. La notizia ha subito allarmato l’opinione pubblica: ecco – si è scritto – un’altra evidenza del riscaldamento globale in atto. È davvero così?
La vita dell’Antartide
Ma D28, per usare la nomenclatura degli esperti, non sembrerebbe esser causato dal global warming che tanto – e giustamente – preoccupa Greta Thunberg e i giovani dei Fridays for future. «L’Antartide è talmente freddo che non può sciogliersi, dunque per perdere massa deve perdere pezzi». Valter Maggi, professore di Cambiamenti climatici all’Università Bicocca di Milano, ci ha raccontato perché non è semplice distinguere tra un iceberg prodotto dal riscaldamento globale e un iceberg che risponde al naturale ciclo di vita dell’Antartide.
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Siamo chiari: gli iceberg continuano a rappresentare un drammatico indicatore del riscaldamento globale. Non tutti, però. D28 si è staccato dalla parte di Antartide che “affaccia” sull’Oceano Pacifico. «Amery è la più piccola piattaforma delle tre principali che compongono l’Antartide: ha una superficie di oltre 62mila chilometri quadrati – spiega a StartupItalia il docente Valter Maggi, che è anche vicepresidente del Comitato Glaciologico Italiano – La piattaforma più grande, chiamata Ross, dà sull’Australia: oltre 470mila chilometri quadrati (per fare un paragone, l’Italia ha una superficie di 302mila chilometri quadrati, ndr). La seconda per estensione è la Ronne-Filchner, che occupa più di 422mila chilometri quadrati».
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Lo studio degli iceberg
Come vi avevamo raccontato quando un iceberg grande come la Liguria si staccò dalla piattaforma Larsen, è difficile per i ricercatori stabilire con certezza (e in poco tempo) se è colpa dei cambiamenti climatici o del ciclo naturale dell’Antartide. «D28 si è formato nella parte orientale, la più stabile – precisa Maggi – Quello che invece abbiamo osservato è che nella parte occidentale, negli ultimi 30 anni, si è verificata una accelerazione nella formazione degli iceberg. Ecco: in questa zona l’influenza dei cambiamenti climatici è certificata».

A differenza di quanto sta accadendo sul Monte Bianco e su tutto l’arco alpino, dove le evidenze scientifiche confermano le responsabilità dell’uomo sullo scioglimento dei ghiacciai, in merito agli iceberg i ricercatori dispongono di minori informazioni. «Noi – conclude il professore della Bicocca – li stiamo studiando dalla fine degli anni 70, prima non c’erano dati. Il periodo di monitoraggio non permette di dare informazioni precise».