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Barcellona – L’innovazione finanziaria va veloce e il panorama bancario cambia, ma non in fretta quanto si vorrebbe. Sono ancora poche le banche con una strategia digitale chiara. E la stragrande maggioranza di loro non si sente attrezzata per l’innovazione digitale. Il dialogo tra istituti bancari e startup resta difficile, anche quando tutti provano a dare il meglio: una frizione di tempi e interessi che rallenta l’implementazione di soluzioni innovative. Ma il cambiamento tecnologico, si sa, è ineludibile. E – al di là di ogni diffidenza – può davvero aiutare la finanza a relazionarsi meglio con clienti e interlocutori, come dimostra bene la risorsa dei Big Data. Proprio da questi è partito il FinTechStage nel World Trade Center di Barcellona (qui abbiamo raccontato l’edizione di Milano), per una giornata di confronto franco tra gli attori della scena Fintech. Una discussione libera come poche, grazie alle caratteristiche dell’evento fondato da Matteo Rizzi e Lazaro Campos. L’atmosfera è sempre informale; il pubblico molto coinvolto e partecipe; le location sono scelte apposta per dimostrare che il Fintech (con relativi finanziamenti) non esiste soltanto a Londra, New York o San Francisco.

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Il valore dei dati

A JP Rangaswami, primo chief data officer nella storia di Deutsche Bank, l’onore di aprire la conferenza parlando della ragione del suo lavoro. Parlare di dati è un po’ come parlare del mondo intero: Rangaswami lo sa, e per spiegare la sua fascinazione per le informazioni e la relativa organizzazione arriva a citare uno dei titoli più famosi di Leonard Cohen, Famous Blue Raincoat: “Le parole hanno un ordine preciso, non sarebbe stato possibile scrivere Famous Raincoat Blue!”. Ogni dato acquista valore quando è posto in un contesto. Il tempo, i luoghi, l’identità: presto si arriva agli esseri umani, al bisogno di sincronizzare i dati che ha portato alla nascita di un’apposita infrastruttura. I clienti delle banche sono persone. Conoscerle è un obbligo di legge (“KYC”: Know Your Customer). I dati – in una forma che sia accessibile, comprensibile, significativa – sono cruciali per interagire con essi, per coinvolgerli in modo più diretto con prodotti dalla frizione ridotta al minimo. Dare a ogni dato il valore semantico appropriato non è facile – ce ne sono talmente tanti! – ma va fatto. Una lezione valida non solo per le banche.    

 

 

 

 

Banche e startup agli opposti?

È stato Samaad Masoud, alla guida del programma Open Innovation di Accenture per Regno Unito e Irlanda, a dare alcune cifre indicative sul rapporto tra banche e tecnologia. Nonostante gli investimenti nel fintech siano triplicati, il 72% delle banche non si sente pronto per l’innovazione digitale – e solo il 20% dichiara di seguire una strategia digitale precisa, fa sapere Piercarlo Gira (Accenture). Inizia a delinearsi l’opposizione che assorbirà gran parte delle discussioni del FintechStage. Fintech e banche possono coesistere, certo. Ma i rispettivi fini non coincidono con esattezza. “Stiamo usando la tecnologia per cambiare il modo in cui interagiamo a livello finanziario” proclama Masoud. Gli istituti bancari se la sentono di sposare questa causa? Non sempre, non del tutto. Ma le banche, nota ancora Masoud, non sono la fine della partita per il fintech. Come collaborano banche e startup? Di solito non benissimo. “Molta policy, poca delivery”, riassume un ospite. La cultura delle grandi aziende non è la stessa delle piccole: le difficoltà di relazione potrebbero addirittura essere strutturali. A volte una startup può metterci un anno per incontrare la banca giusta con cui lavorare. E non è detto che il rapporto sia di esclusiva. Inoltre, ricorda Mariano Belinsky (Santander Innoventures) le innovazioni portate dalle startup spesso non sono universali: vanno bene per i bisogni di alcuni mercati e non altri. Tutti sono d’accordo: le banche non vedono ancora i ricavi che si aspettavano dai loro investimenti in innovazione.

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I due mondi, quello bancario tradizionale e quello innovativo, si guardano con una punta di diffidenza. Ma sarebbe assurdo negare il bisogno di cooperazione: dalle imprese innovative nascono le idee che le grandi sigle bancarie diffondono a livello industriale. Roberto Ferrari (CheBanca!) non ha dubbi: “Le banche del futuro saranno Fintech, è l’unica possibilità che hanno per sopravvivere”. Ma per ora ogni cambiamento necessita del suo tempo: “Gestire i soldi della gente è un affare molto serio. Non si può chiedere alle banche di essere veloci come Google o Facebook”. La maggioranza dei presenti resta comunque convinta che gli investimenti fintech in startup siano più efficaci, in termini di innovazione, di quelli delle banche.

 

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Sardex oltre i 50 milioni di euro

Sardex, il circuito di moneta complementare nato in Sardegna nel 2010, è stata l’unica startup italiana invitata per un pitch nella sala del World Trade Center. Ha una storia di crescita impressionante: nel 2015, secondo le previsioni, supererà i 50 milioni di euro transati, anche grazie a un nuovo strumento, Domu, legato al settore immobiliare. Lo sviluppo del circuito resta su base regionale. A Barcellona ha ricevuto attenzioni positive, provando ad arricchire i propri contatti tra investitori – necessari per crescere ancora – e rappresentanti del mondo fintech. Il modello di Sardex è non solo economico, ma relazionale: “È faticoso, comporta molto lavoro perché si incontrano sensibilità diverse” spiega il co-fondatore Peppi Littera. Comporta un lato umano: “Le persone sono un valore, non un costo. Sardex dà vantaggi non soltanto sul piano dell’economia, ma su quello della coesione sociale”. Un aspetto forse non discusso di frequente, quando si parla di innovazione finanziaria. Ma fondamentale. Secondo Lazaro Campos, il Fintech mette insieme business e tecnologia per la creazione di valore: è ciò che ha fatto Sardex, dove ce n’era più bisogno.