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Il fintech spinge, le banche si muovono. Le filiali sono sempre meno, mutano il loro ruolo: transazioni sullo smartphone e consulenza di persona. Cambiano ruoli e struttura dei costi. Gli istituti sono tech company, ma pensano a digitalizzare (e ottimizzare) processi già familiari, trascurando il nuovo che avanza. Ecco perché, nonostante una potenza inferiore, il fintech può giocarsi la partita. Alla fine, però, la collaborazione tra vecchio e nuovo s’imporrà sulla competizione. Questo è lo scenario emerso dal report Digital Disruption di Citi. Che si chiede: siamo già al punto di non ritorno?

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Follow the money

Per capire dove va la finanza occorre capire dove vanno i soldi. Nel 2010 gli investimenti privati in società fintech erano 1,8 miliardi di dollari. Fino al 2013, andatura costante ma senza strappi: 2,1 miliardi nel 2011, 2,4 nel 2012, 4 nel 2013. Poi l’accelerazione: 12 miliardi investiti nel 2014 e 19 nel 2015. Mercato decuplicato nel giro di un lustro. Cifre che vanno a impattare sugli utenti. Perché, come sottolinea Kathleen Boyle, managing editor di Citi GPS, il 70% dei fondi si è concentrato “nell’ultimo miglio”, cioè nel mercato consumer. Per l’esattezza, il 73% degli investimenti punta su Sme (cioè piccole e medie imprese) e finanza personale (cioè soprattutto correntisti e clienti in cerca di prestiti). Sono i settori che costituiscono la fetta maggiore (il 46%) dei profitti bancari (il corporate banking si ferma al 35% e l’investment banking al 19%). Tradotto: buona parte delle risorse del fintech si concentra nel segmento più redditizio per gli istituti tradizionali. Che a questo punto devono scegliere se vedere erodere le proprie casse o rimpinguarle attraverso nuovi canali. Dovranno farlo in fretta.

È vero: il fintech, per ora, rappresenta solo l’1,1% del mercato consumer statunitense. Se le nuove imprese “hanno dalla loro parte l’innovazione”, sottolinea Boyle, i grandi gruppi bancari “hanno ancora il sopravvento”. Quell’1,1%, però, crescerà. Oggi è una frazione minima di un mercato consumer da 850 miliardi di dollari. Nel 2023 il fatturato complessivo toccherà i 1200 miliardi e la quota fintech sarà pari al 17%. “Europa e Stati Uniti non hanno ancora raggiungo il punto di non ritorno”. Ma questa fase di passaggio “non durerà a lungo”. “Siamo ancora ai primi passi”, sottolinea il report. Ma “emerge già una domanda”: “Saranno più veloci le banche americane ed europee ad abbracciare l’innovazione oppure saranno più rapidi i concorrenti fintech a scalare”?

Il punto di non ritorno in Cina

La Cina ha già scollinato. La disruption ha infranto gli equilibri costituiti. In termini di transazioni, la Cina è superiore. Basti dire che Alipay, nel 2015, ha mosso il triplo del denaro rispetto a PayPal. Merito di una elevata penetrazione di internet e mobile, di una regolamentazione favorevole. Ma soprattutto di e-commerce e piattaforme P2P. Oggi il commercio via web pesa già 672 miliardi dollari, in un settore che ne vale 1700 a livello globale. E Alibaba muove il doppio di Amazon. Entro tre anni, il volume mondiale toccherà i 3 mila miliardi. Sarà cinese per più della metà (1600 miliardi). Proporzioni ancora più sbilanciate per i prestiti P2P: in Cina valgono già 66,9 miliardi di dollari. Per fare un confronto: negli Stati Uniti toccano i 16,6 miliardi e nel Regno Unito i 5,4.

E se i nuovi protagonisti sono più forti, gli istituti tradizionali sono meno strutturati rispetto agli omologhi occidentali. Più della metà dei soggetti “non bancabili” (che quindi non hanno accesso al credito tradizionale) sono in Asia. Società come Alipay e Tencent hanno un numero di clienti paragonabile a quelli degli istituti classici. In altre parole: l’inclusione finanziaria (che in Europa e Stati Uniti è stata assorbita dai canali tradizionali) passa dal fintech. Un destino che lega Cina, alcuni Paesi africani come il Kenya. E l’India, dove le transazioni su mobile banking sono quadruplicate nel corso del 2015. Ecco perché, secondo Citi, il punto di non ritorno è già stato raggiunto.

Meglio diverso che conveniente

I miliardi vanno soprattuto verso payment e lending. Ma lo scenario è tutto da costruire. Perché c’è investimento e investimento. Citi distingue tra un’innovazione capace di cavalcare il presente e quella in grado di resistere più a lungo. Alla prima categoria appartengono le tecnologie che stanno rendendo i servizi “meno costosi”. La vera partita però si gioca tra quelli che stanno cercando di fare qualcosa di diverso. Il report sintetizza tutto in una frase: “Different is better than cheaper”, “meglio diverso che economico”.

La ragione è semplice. L’innovazione che gioca sul risparmio migliora i meccanismi già esistenti. Per questo, le banche possono replicare questi (nuovi) modelli. Il discorso cambia quando gli istituti sono chiamati realmente a fare qualcosa di differente. Per fare degli esempi concreti: i robo advisor migliorano servizi già offerti dalle banche. Il credit scoring e le piattaforme di lending sono invece creature nuove, un rebus.

Le banche devono quindi gestire un doppio scivolamento: dal fisico al digitale e dai canali tradizionali verso nuovi business. Il fintech, però, vale ancora poco rispetto al giro d’affari delle banche. Per questo Citi descrive il successo di Alipay e PayPal più come “un’occasione mancata che una perdita di fatturato”. L’erosione farà il suo lavoro, ma la nuova forma è ancora tutta da definire.

Per avere un riferimento, il report attinge da altri settori che hanno già incontrato la loro rivoluzione digitale: giornali, musica, video e viaggi. In 10 anni (grazie ai siti di news, iTunes, Netflix ed Expedia), si è trasferito il 44% del mercato. Chi si è mosso prima e meglio ha visto crescere i profitti. E ha concentrato nelle proprie mani un potere enorme: se nel mercato “fisico” le 3 maggiori imprese costituivano il 45% del settore, nel nuovo mondo rappresentano l’80%. Un indizio di quel che sarà. Greg Baxter, global head of digital strategy di Citi, ne suggerisce un altro, già visibile:

Il primo segno di disruption è la stagnazione del vecchio mondo

Le diverse zone del globo avranno poi tempi di maturazione differenti. Baxter ipotizza (in occidente) un’espansione che parte dalla West Coast per dirigersi verso i principali hub finanziari, cioè Londra e New York.

Banche e fintech: vince la collaborazione

Le banche che vedranno erodere più in fretta il proprio giro d’affari sono quelle dei Paesi con un sistema bancario retail “frammentato o poco sviluppato” e con “elevati livelli di penetrazione digitale”. Tra questi ci sono Cina, Taiwan, Hong Kong, Thailandia e Singapore. Qui saranno le nuove imprese a guidare l’evoluzione. In molti altri casi (Svezia, Singapore, Spagna, Olanda, UK, Germania e – in parte – Italia) a dirigere il cambiamento sono le banche. Torna la domanda fondamentale: la relazione tra società fintech e banche sarà di collaborazione o di competizione? È ancora Baxter a rispondere: «Credo che il trend dominante sarà la collaborazione», perché ogni partecipante alla sfida «ha bisogni di quello che l’altro possiede». Le banche «hanno bisogno di innovazione» (“velocità, agilità, creatività”). Le native fintech cercano «capitali, liquidità, distribuzione, reputazione, licenze». Collaborare non vuol dire assenza di traumi.

Mutual benefit concept of handshaking on blackboard

Come cambiano le banche

Ogni rivoluzione porta con sé una dose di distruzione. Antony Jenkins, ex ceo di Barclays, prevede che le nuove tecnologie “metteranno sotto pressione le banche attuali”. E non sarà solo una pressione psicologica.

1. Dipendenti dimezzati. «Prevedo – afferma Jenkins – che, nel corso di 10 anni, le filiali e gli assunti nel settore dei servizi finanziari caleranno del 50%». Se nella vostra banca ci sono 10 impiegati, presto saranno 5. Negli ultimi dieci anni, gli assunti dalle banche in Italia sono già calati dell’11%, scendendo sotto i 300 mila posti. In UK, Olanda, Irlanda e Danimarca il taglio, più vigoroso, si avvicina a un quarto degli occupati.

2. Il taglio delle filiali. La tendenza è già evidente anche nel numero delle filiali: tra il 2004 e il 2014, nell’area euro sono diminuite del 17%. In Asia del 22%. In Italia la contrazione è stata più tenue: -7%. Ci sono ancora 59,6 filiali ogni 100 mila abitanti. La media europea si ferma a 28, quella americana al 32,4. L’Asia a 10,8.

3. La struttura dei costi. Gli istituti italiani sono ancora molto strutturati. E, di conseguenza, i costi impattano ancora troppo (più del 60%, caso unico tra i Paesi sviluppati) sul fatturato. Troppe filiali si traducono in scarsa efficienza. La rivoluzione del lavoro si rifletterà anche sulla struttura dei costi: “Le filiali e il loro staff – sottolinea Jenkins – costituiscono il 65% dei costi nel retail”. L’automazione significherà risparmio.

4. Meno transazioni, più consulenza. Non si tratta della fine delle banche, ma di una decisa trasformazione delle filiali, “sempre più focalizzate sulla consulenza e sempre meno sulle transazioni”.

Ma la filiale non morirà

Il numero delle filiali non è calato negli Stati Uniti. Ed è aumentato del 26% in America Latina e Caraibi. Perché? Negli Stati Uniti si tratta di un tentativo di riconquistare clienti e presidiare il territorio. Altrove (in Sud America ma anche nei Paesi Asiatici in via di sviluppo) c’è invece la volontà di intercettare quella popolazione che non ha mai avuto a che fare con le banche.

La filiale non è ancora morta. Lo conferma, più di ogni altro, un dato: sono sempre di più le operazioni concluse via smartphone, ma nel 66% dei casi l’apertura di un conto si fa ancora di persona, firmando con carta e penna. «La presenza fisica è ancora forte», sottolinea Jonathan Larsen, altro analista di Citi. Guardando più in là, però, «le filiali saranno come quelle attuali». Il 60-70% del personale retail opera ancora processi manuali. “Potrebbero sparire, sostituiti dall’automazione, o evolversi”. Risultato: «Le filiali saranno hub dove i clienti incontrano gli advisor». E in questa direzione siamo già al punto di non ritorno.

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Da banche a tech company

«Noi siamo una tech company». Parola di Lloyd Blankfein, ceo di Goldman Sachs. I numeri gli danno ragione. Il 30% dei dipendenti della banca d’affari (cioè circa 9 mila persone) è costituito da ingegneri e programmatori. Più o meno la stessa quota di Facebook. E non si tratta di un caso isolato. Con il tempo aumenterà l’automazione, diminuiranno le spese in busta paga ma aumenteranno quelle per l’IT. Guai quindi a vedere l’evoluzione digitale come una scorciatoia per ridurre i costi e tagliare il personale. Una banca che non funziona con 10 mila dipendenti, non funzionerà neppure con 5 mila se non si evolve. Servono investimenti: nel 2015, secondo un’analisi di Celent citata dal report, hanno toccato i 200 miliardi di dollari . E cresceranno del 10% nei prossimi due anni. Capitali notevoli, che costituiscono una barriera d’ingresso per le nuove società.

Emergere, però non è impossibile. Più per errori altrui che per meriti propri. Le banche, infatti, destinano (e destineranno per i prossimi due anni) il 70% della spesa IT “al supporto dell’attuale sistema”. Il grosso si rivolge quindi a migliorare i servizi e non allo sviluppo di nuovi prodotti. È già qualcosa, ma è anche una porta spalancata ai pesci piccoli del fintech. Perché quel 30% indirizzato alle novità (dalla blockchain in giù) vale 50 miliardi, “solo” il doppio degli investimenti mondiali fintech. La potenza di fuoco delle banche passa da un imbuto che ne riduce la portata.

Paolo Fiore
@paolofiore