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Basta ipocrisie. Le fintech per sopravvivere hanno bisogno delle banche e viceversa. La disruption nel settore finanziario può nascere solo da una collaborazione, che come ogni forma di compromesso non sarà esente da traumi. Gli istituti di credito cercano agilità, creatività e velocità. Le startup, a loro volta, hanno bisogno di liquidità, capitali, distribuzione, reputazione. E soprattutto licenze. Più presto ci sarà questa consapevolezza in entrambi, più il futuro sarà roseo per loro e i consumatori. A remare contro c’è infatti il tempo. I millennials preferiscono ormai i big del digitale alle banche: secondo sondaggi il 75% preferirebbe affidare i suoi soldi ad aziende come PayPal o Google invece di depositarli in una banca tradizionale. I big del settore lo hanno capito e hanno tracciato il sentiero della trasformazione: «Noi siamo una tech company», ha spiegato Lloyd Blankfein ceo di Goldman Sachs. Ma perché per altre è ancora così difficile aprirsi all’innovazione e quali sono gli errori delle fintech che continuano a essere ignorate?

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Perché le banche hanno paura dell’innovazione

Ormai il 30% dei dipendenti di Goldman Sachs, circa 9mila persone, è costituito da ingegneri e programmatori. Questo la dice lunga su quanto ormai il tech sia entrato prepotentemente nel mondo bancario. La questione su cui riflettere semmai è un’altra: «Non abbiamo la sfera di cristallo e non sappiamo a priori valutare se un investimento miliardario in una nuova tecnologia si trasformerà in un flop, un po’ come chi ha scommesso sul fax quando le email stavano per affermarsi» spiega al sito Livemint, Noor Menai, Ceo di CTBC Bank. Nel corso dell’articolo Menai spiega che le banche spendono ogni anno enormi quantità di soldi per automatizzare i loro processi rivolgendosi ad aziende grosse che hanno tempi lunghi per la realizzazione.

E spesso succede che quando finalmente la tecnologia è pronta, sia in realtà già vecchia di una generazione. Qui nasce la prima barriera all’innovazione: un Ceo di una banca che ha speso miliardi su una infrastruttura hitech a non vuole che la sua scelta sia compromessa da una nuova tecnologia che magari fa la stessa cosa su uno smartphone per un costo di pochi centesimi.

L’importanza dell’open innovation

Eppure, le banche hanno capito di non avere opzioni. O abbracciano la trasformazione digitale o ne verranno travolte. Il percorso per avvicinarsi all’innovazione è pieno di step intermedi (qui ce ne sono sette, quelli necessari). Un passaggio “facile” è rappresentato dall’apertura all’open innovation: i principali gruppi finanziari si stanno da tempo già muovendo per aprire il loro dipartimento di ricerca e sviluppo all’innovazione tecnologica, per la serie meglio farcele in casa che comprarle all’esterno per milioni. Restando solo fermi al panorama italiano, ci sono le iniziative di Unicredit, che ogni anno promuove un percorso di accelerazione per startup, l’Unicredit Start Lab. Intesa SanPaolo che con il suo programma di coaching, lo Startup Initiative. E altre che come, Banca Sella e CheBanca!, hanno fatto scelte più radicali, aprendo veri e propri verticali interamente dedicati al fintech. La prima SellaLab, coworking dedicato ai progetti nell’ambito della finanza tecnologica. Mentre la seconda con una call, gli Italian Fintech Awards e gli Upstream project, una sorta di vivaio per le startup.

Cosa sbaglia il fintech che chiama le banche

Oggi tante fintech sono focalizzate sull’acquisizione di un numero sempre più crescente di utenti. Mentre fanno passare in secondo piano due aspetti che in ogni azienda dovrebbe essere al primo posto. In primis, la necessità di trovare una soluzione che risponda a un effettivo bisogno del mercato. Un discorso che può essere esteso all’ambito startup in genere, “l’idea è fantastica, ma messa in pratica quante opportunità ha di funzionare?”. E poi un’altra legata alla precedente, “quanti soldi la fintech è in grado di generare?”. L’approccio che punta esclusivamente a portare utenti sulla barca, conduce a false speranze, droga il mercato e allontana i grossi investitori (tra cui anche gli istituti finanziari) che non hanno alcun interesse a mettere soldi su soluzioni che non trovano applicazione nel mondo reale.

Regtech, il terreno di incontro

Per regtech, contrazione di regulation and technology, si intendono quelle fintech che inventano strumenti tecnologici per aiutare le imprese a essere in regola con le normative vigenti, velocizzando le attività di controllo, come l’identificazione dei clienti e le procedure anti riciclaggio e frodi. Queste operazioni avvengono oggi ancora in gran parte manualmente e il regtech offre due vantaggi alle banche: risparmi in termini di costi e risorse e la possibilità di avere report molto più accurati da destinare agli enti di vigilanza. Stiamo parlando di un mercato che secondo le stime di LTP raggiungerà il valore di 118,7 miliardi nel 2020, diventano il terreno dove il fintech potrà avere più spazi di collaborazione nel mondo bancario. E sopratutto meno competizione, rispetto ad altri settore come il payment o il lending, in cui la concorrenza degli istituti finanziari è difficile da gestire.

Giancarlo Donadio
@giancarlodonad1