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Penultimo trimestrale, tempo di numeri anche nella finanza tecnologica e, nello specifico, sugli osservati speciali dell’anno: bitcoin e blockchain. Nella prima metà del 2016 i venture hanno investito su startup (e aziende) bitcoin 368,53 milioni di dollari. Il dato interessante è però quante sono le società coinvolte: 37 (al 26 settembre 2016, fonte CoinDesk). Non solo. Di queste, 3 startup si sono prese più della metà della torta. Circle, che ha chiuso round per 60 milioni di dollari, Blockstream, che ha visto un aumentare il capitale di 55 milioni di dollari, e Digital Asset holdings, che ha ricevuto investimenti per 55 milioni.

Sempre numeri. Sembrano già lontani anni luce gli appena 2,13 milioni messi dai Vc sulle (al tempo) poche startup bitcoin e blockchain nel 2012. Ma non c’è stato ancora il raddoppio rispetto l’anno precedente (e, salvo sorprese, con ogni probabilità non ci sarà). Nel 2015, infatti, sulle società del settore erano stati investiti complessivamente 490 milioni di dollari.

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Le banche che hanno aderito al consorzio blockchain R3 Cev

Eppure, stando alle attenzioni che non solo regolatori, ma addirittura banche d’affari e banche centrali stanno riservando alle criptovalute e alla tecnologia blockchain, tutti ci aspettavamo una musica diversa. C’è da chiedersi a questo punto cosa e perché tiene a freno la corsa dei capitali in un settore così in crescita. A pensarci bene, se provassimo a ragionare per un attimo a ragionare con la testa dei venture scopriremmo che, forse, non hanno tutti i torti. Ci sono almeno 4 motivi che scoraggiano gli investimenti sulle società bitcoin.

Motivo 1: le startup bitcoin sono troppo simili tra loro

Nel mercato delle criptovalute il panorama è dominato da startup che offrono soluzioni per facilitarne l’uso ai non esperti. L’intento, più che nobile sia chiaro, è quello di aprire il settore a un mercato meno di nicchia. Paradossalmente, però, questa propensione rischia di diventare un problema: infatti assistiamo al nascere di startup che si assomigliano un po’ tutte perché hanno tutte lo stesso focus, quello ovvero di semplificare il processo di pagamento, senza tener conto che poi non è poi così difficile oggi andare su una delle tante piattaforme di exchange, aprire un wallet e iniziare a fare transazioni. In poche parole, c’è poca varietà. Tant’é che l’interesse degli investitori si sta gradualmente spostando verso la blockchain, ovvero la tecnologia alla base di bitcoin e le cui possibili applicazioni sono scalabili su diversi mercati: sanità, finanza, vendite, energia e burocrazia.

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Motivo 2: c’è ancora troppa confusione tra gli utenti

A volte non è facile capire i bisogni dell’utente che fa uso della criptomoneta, diviso tra il desiderio di essere libero e anonimo e quello di avere più garanzie e sicurezza. Qui il nodo è centrale e fa nascere una riflessione sul ruolo degli intermediatori nel sistema. Oggi le piattaforme di scambio (i cosiddetti bitcoin exchanges) sono di fatto meccanismi regolatori e svolgono una funzione di controllo simile a quella delle banche. Coinbase, Circle, sono solo alcuni esempi, ma se ne potrebbero fare tanti. Eppure allo stesso tempo proliferano piattaforme diverse, come LocalBitcoins, che consentono agli utenti di scambiarsi bitcoin incontrandosi in pubblico, eliminando molti dei passaggi che vengono svolti dagli intermediari online. D’altronde, siamo nell’epoca della disintermediazione, basta pensare a quello che è successo in politica con i movimenti, come quello di Grillo, che usano il web per favorire avvicinare, senza più passaggi intermedi, il cittadino al potere. Meno intermediari, significa tuttavia, anche meno sicurezza, la stessa che gli utenti reclamano, e ciò rende più complesso per i venture capire le reali esigenze del mercato che hanno di fronte. Un cane che sembra mordersi la coda.

Motivo 3: non sanno di chi fidarsi

E poi c’è il grande tema della fiducia. Ne abbiamo già parlato: gran parte degli ostacoli che impediscono ai venture di finanziare startup nel settore dei bitcoin nascono dalle problematiche relative alla sicurezza. I bitcoin sono accusati di essere spesso un mezzo per riciclare denaro che proviene da attività illecite o per finanziare attività terroristiche. Alcuni casi sono balzati agli onori della cronaca. Come quello di Charlie Shrem, startupper ed ex vice presidente della Bitcoin Foundation, che è stato condannato due anni di carcere per aver orchestrato un piano di riciclaggio di denaro per un valore di 1 milione di dollari e facilitato l’acquisto di sostanza illegali. Senza arrivare a casi così estremi, per un venture non è facile capire a chi affidarsi, se lo startupper nelle cui mani mette i suoi soldi sarà capace di destreggiarsi tra le regole e la necessità di romperle per fare innovazione.

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Motivo 3: ragionano da investitori e non da scommettitori

Nei bitcoin vince di più chi ha la mentalità del trader più che quella dell’investitore. Tanti sono i fattori a cui un venture deve prestare attenzione, come le oscillazioni di mercato e la tempistica, quando è il momento giusto di entrare in campo. E solitamente molto viene deciso dalla stampa, che quando ne inizia a parlare spesso susciterà qualche curioso a buttarsi nell’avventura.

Non solo venture

Fortunatamente non sono solo i venture a decidere della vita e della morte di una startup, e nel caso di bitcoin (e blockchain), che possono contare su una rete di appassionati e utenti sempre più radicata, ci sono altre possibili strade per ottenere iniezione di liquidità o un aumento di capitale. Ad esempio l’equity crowdfunding, attraverso il quale gli utenti, siano essi investitori o risparmiatori, possono investire in startup. A differenza del crowdfunding di tipo tradizionale, al termine della raccolta non vi è una “ricompensa”: il ritorno per gli investitori privati avviene in equity (azioni o obbligazioni) della società finanziata. E magari anche questo tipo di transazioni potranno essere effettuate direttamente in bitcoin. Il cerchio che si chiude.

Aldo V. Pecora
@aldopecora