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“Too big to fail”. Quando crolla Lehman Brothers, la quarta banca di investimenti più importante al mondo, un po’ tutti, opinione pubblica, impiegati, manager, competitor, politici, continuano a pensare che sia “troppo grande per fallire”. È un po’ la reazione che gli uomini provano di fronte a qualcosa di imponente che ha diritto a esistere, nonostante tutto, perché è lì da sempre, e non può sparire nel buio. Eppure il gruppo finanziario, che dal 1850 aveva iniziato la sua scalata inarrestabile da negozio di prodotti tessili fino a diventare un gigante da 600 miliardi di titoli e uno staff di più di 25 mila persone, ha finito per imboccare la strada dell’oblio e viene spazzata dal mercato, lo stesso che ha dominato per più di un secolo. Senza alcun appello.

La storia della  più grande bancarotta della storia degli Stati Uniti (la banca è fallita con debiti bancari per ben 613 miliardi) è uno psicodramma che sembra scritto per una sceneggiatura hollywoodiana. I personaggi non mancano: ci sono banchieri famelici, politici pervasi da dubbi e conflitti di interesse, qualche cellulare che squilla invano (e chissà se dall’altro capo qualcuno avesse risposto come sarebbe oggi la storia finanziaria del mondo). E c’è perfino un gorilla, o meglio un uomo che gli somiglia e sulle cui spalle si consumano il peso e le responsabilità di un crack clamoroso, Richard Severin Fuld.

Il gorilla in gabbia

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Siamo nel 2008 e Richard Severin Fuld aspetta gli esiti di un incontro al quale non è stato invitato. E’ molto nervoso, prova a fare qualche telefonata per cercare un piano B, ma in cuor suo spera che qualcuno dei top manager che sono presenti siano disposti a salvare la sua banca (Ken Lewis di Bank of America, Bob Diamond di Barclay, John Mack di Morgan Stanley, Jamie Dimon di JP Morgan Chase…).

I cerimonieri dell’incontro, nel quale si sta scrivendo la storia di Wall Street e della finanza mondiale, sono Hank Paulson, allora Segretario del Tesoro, e Ben Bernanke, in quegli anni presidente del Comitato dei Governatori della Federal Reserve.  Sono ore decisive, il governo ha già deciso che non avrebbe sborsato un dollaro per salvare l’istituto finanziario, ormai indebitato fino al collo. I top manager hanno messo sul tavolo tutte le carte, bilanci, titoli in possesso, le partecipazioni nei gruppi industriali, e cercano di capire cosa è ancora salvabile o se il naufragio è ormai inevitabile.

Il timone della barca, del Titanic della finanza, è da anni proprietà di di Fuld che per la prima volta deve cedere il suo destino nelle mani altrui. Il suo ha preferito sempre deciderlo da solo, facendo a “sportellate” a Wall Street e scalando posizioni su posizioni con i suoi metodi brutali, tanto da meritarsi l’appellativo de “il gorilla” da colleghi e dipendenti di Lehman Brothers, nella quale entra nel 1969, come semplice trader.

Vuole fare più soldi di tutti. Un dittatore in azienda, per lui Wall Street è un campo di battaglia, il più darwiniano degli ecosistemi al mondo, nel quale sopravvive solo chi possiede le armi migliori. Vuole spiccare il volo. Una piccola vendetta sulla vita: da giovane vuole fare il pilota e fa carriera fino a diventare allievo presso l’Air Force, ma poi deve rinunciare. Uno scambio, non proprio cordiale, con il suo comandante fa emergere il suo carattere turbolento, non è fatto per ricevere ordini, ma per dettarli.

Piccola soria di Lehman Brothers

Quasi sicuramente Fuld ha letto o sentito parlare di Henry Lehman, uno dei padri fondatori del gruppo bancario. Immigrato dalla Germania, esattamente da Rimpar, un comune tedesco della Baviera, arriva a Montgomery in Alabama intorno al 1844. All’epoca ha 23 anni e si mette in affari con un negozio di prodotti tessili e di abbigliamento. Henry ha due fratelli, Emanuel e Mayer, che decidono di unirsi a lui nel business. In quegli anni il “petrolio” si chiama cotone, che soprattutto nell’America del Sud è una delle colture di maggiore importanza.

I tre fratelli hanno senso per gli affari da vendere. Sanno del valore alto del cotone e lo usano come moneta contante: si fanno pagare spesso con questa merce di scambio, mentre iniziano un nuovo business proprio sulla materia prima. Le cose cambiano dopo la morte di Henry, vittima della febbre gialla. È in quegli anni che gli altri fratelli decidono di trasferirsi a New York per diventare protagonisti del mercato del cotone che si era spostato proprio nella Grande Mela.

Il passaggio verso il mondo della consulenza finanziaria avviene già nel 1844 quando i Lehman iniziano a investire nella ricostruzione della nazione dopo la Guerra Civile, soprattutto nel settore ferroviario. Alla fine del 1800, quello che è nato come un piccolo negozio, è diventato a tutti gli effetti una potenza della finanza che contribuisce alla costruzione (e siede nel consiglio) della Borsa del cotone, Borsa del Caffè e nel 1887 della Borsa Valori di New York.

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La società inizia a sottoscrivere le sue prime offerte pubbliche, ma solo nel 1906 inizia a emettere titoli a seguito dell’alleanza con Goldman Sachs. Le redini passano in mano a Robert Lehman, il nipote di Emanuel. Robert domina la vita dell’azienda con una lunga gestione fino alla morte nel 1969. Il manager è anche l’ultimo membro della famiglia a guidare la banca di investimenti.

Robert sa guidare la banca in una fase di transizione e ha vision: è sotto la sua guida che Lehman inizia a investire nelle nuove industrie, come quella cinematografica (Paramount Pictures e 20th Century Fox, sono due delle aziende cinematografiche sulle quali il gruppo ha investito). Poi sarebbe toccato ad altri settori come quello petrolifero e poi nella nascente industria elettronica, dai microprocessori ai videogiochi (Qulcomm e Intel, sono alcune delle aziende partecipate).

Questa prima fase della vita di Lehman Brothers si conclude nel 1984 quando viene acquistata da American Express sotto la guida di G. Peterson, nominato per portare la banca in acque più sicure. Fusione che poi viene di fatto annullata nel 1993, quando Amex decide di dividere la sua divisione bancaria e quella di intermediazione. Lehman Brothers torna indipendente nel 1993 e il “gorilla” ha un compito arduo: riportare la banca al suo antico splendore.

La bolla dei mutui subprime

Chi ha conosciuto Fuld parla di lui come un uomo che non è abituato ad ascoltare gli altri. Sotto la guida dell’amministratore la banca si tramuta nello squalo di Wall Street. I suoi trader e banchieri sono contenti di quest’etichetta che gli è stata affibiata e fanno di tutto per mostrarsi più “volgari e trasandati” rispetto ai colleghi aristocratici di Wall Street. Fuld capisce che c’è un settore da aggredire per portare la banca agli antichi fasti del tempo: quello dei mutui subprime, un investimento ad altissimo rischio, ma molto redditivo.  Per ordine di Fuld, la banca inizia a investire pesantemente. Il contesto d’altronde è favorevole.

Dopo la bolla economica della dotcom la FED decide di abbassare i tassi di interesse. Quando una banca centrale fa questo tipo di operazione aumenta la circolazione del denaro. Le banche quindi si trovano ad avere tanti soldi e non sapere spesso come utilizzarli. Poi c’è in quegli anni la deregolamentazione voluta dall’amministrazione dell’allora presidente George Bush che consentiva alle banche di prendersi molti più rischi rispetto al passato. In un contesto così mutato per un privato ottenere un prestito è diventata un gioco più semplice rispetto al passato. Le banche hanno tanti soldi, i tassi di interesse sono bassi e quindi iniziano a prestare soldi, anche a chi non poteva poi permettersi di ripagare il debito.

Fuld capisce che è il momento di “mettere la quinta”. Non può emettere mutui perché Lehman opera come banca d’affari. Allora inizia a comprarli da società finanziarie. Lehman e le altre banche coinvolte nel sistema, usano quei mutui per costruire dei titoli derivati, rischiosi perché si fondano sul debito. E allo stesso tempo sicuri, i mutui sono, tuttavia, garantiti da un bene immobiliare, quindi cosa c’è di più sicuro?

Le cose vanno come Fuld ha previsto. Con i subprime, Lehman fa più soldi di tutti e nel 2007, la divisione titoli immobiliare è quella più remunerativa. La società detiene oltre 275 miliardi di dollari di attività in gestione.

Ma cosa sarebbe successo se la Fed avesse rialzato i tassi di interesse? La strategia di Fuld si sta rivelando suicida. Alex Kirk e Mike Gelband sono due dei manager che provano a spiegare a Fuld che la sua idea di crescita è un treno in corsa destinato a sbattere davanti a un muro. I due provano a farlo ragionare. Ma Fuld li rinnega per ben tre volte, sceglie di non ascoltare i loro consigli: «Sì è comportato come San Pietro quando per ben tre volte rinnega Cristo», avrebbe dichiarato poi Larry McDonald, ex vice presidente della banca.

Nel 2008 la FED alza i tassi. Scoppia la bolla immobiliare. Con il crollo del valore delle case seguente, anche la qualità di quei titoli garantiti da mutui viene meno. Il problema poi diventa un altro. Come valutarli una volta rimessi sul mercato?

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Così affondano più di 150 anni di storia

Abbiamo lasciato Fuld in quella stanza, disperato mentre attende il destino della banca che ha risollevato dalle ceneri e riportato tra le più ricche d’America. In quella stanza si sta giocando una partita a scacchi decisiva. Nei giorni precedenti Henry Paulson e Barnake hanno messo già tanti soldi pubblici per salvare gli altri giganti colpiti dalla crisi dei mutui (un piano da 200 miliardi per salvare Fannie Mae e Freddie Mac). Mentre la Fed ha messo 85 miliardi per andare in soccorso do AIG, la più grande compagnia assicurativa del Paese. E ancora 30 miliardi per favorire l’acquisizione di Bearn Stearns da parte di Morgan Chase.

In questo contesto Lehman può diventare una vittima sacrificale: «Lehman Brothers è come un bambino che tira la coda al cane. Tutti sanno che primo o poi il cane lo morderà. Ma quando succede si fa male solo lui», scrive sul suo blog in quegli anni Barry Ritholtz, investitore e colonnista su Bloomberg.

Una pioggia di soldi statali che però deve interrompersi: i repubblicani e i democratici non avrebbero accettato un’altra intromissione dello Stato nell’economia del Paese. La situazione diventa sempre più complessa. In assenza di contributi pubblici, Paulson sta chiedendo a dei banchieri di salvare un diretto concorrente, quando molti di loro avrebbero avuto più vantaggi nello spazzarlo via dal mercato.

Eppure la storia avrebbe potuto essere ben diversa. I banchieri trovano un accordo, favorito da Bob Diamond di Barclays che avrebbe potuto comprare Lehman. È tutto pronto, le altre banche avrebbero fatto da garante con un miliardo di euro. Poi come in un finale da psicodramma che si rispetti, arriva una telefonata. Dall’altra parte della cornetta c’è il Ministro del Tesoro Britannico che blocca l’acquisizione.

Il thriller si conclude con un’altra telefonata. Questa volta il mittente è Paulson che si gioca l’ultima carta. D’altronde è anche lui sulla graticola. Ha sul capo un conflitto di interesse gigante. Ex Goldman Sachs favorisce il salvataggio di AIG che hai in pancia 15 miliardi proprio della banca che Paulson ha guidato.

Il destinatario della chiamata uno degli uomini più ricchi del mondo: Warren Buffett. Il telefono squilla, e squilla ancora. Ma nessuna risposta.  Quella sera Buffett è irrintracciabile.

«Allora sono io il coglione?»

Il 15 settembre del 2008 Lehman Brothers annuncia l’intenzione di avvalersi del Chapter 11, una procedura che si attua in caso di fallimento. Il gigante crolla, provocando quella che è di fatto la più grande bancarotta nella storia degli Stati Uniti.

Pare che dopo aver saputo della decisione che nessuno avrebbe salvato la sua banca, Fuld abbia esclamato in tono rabbioso: «E che sono io il coglione?».

Tanto “coglione” poi non lo è stato. Non ha mai pagato per le sue colpe. Anni di indagini e di classe action. non hanno mai dimostrato il reato di frode. In totale più di 50 cause subite ma nessuno dei procuratori americani è riuscito a trovare un cavillo giuridico per farlo condannare.  Dal 2000 al 2007 ha incassato tra stipendi e bonus 310 milioni di dollari, alcuni parlano di 500.

Non si è mai scusato per il crack: «A causare la crisi è stato un insieme di eventi. Rifarei tutte le scelte che ho fatto in quegli anni», ha dichiarato alla stampa.

Giancarlo Donadio
@giancarlodonad1