“L’ecosistema dell’innovazione cresce. C’è meno storytelling e ancora meno l’effetto del singolo che cambia il mondo. Perché un futuro imprenditoriale passa dal team”. In attesa del nuovo StartupItalia! Open Summit di dicembre 2017 intervista al 26enne imprenditore a capo di Talent Garden: una delle dieci startup finaliste dell’ultimo SIOS.
La sua sveglia suona alle cinque del mattino. E già questa è una di quelle notizie che possono contribuire a spiegare il successo esponenziale della sua creatura, Talent Garden. Per carità, non è l’unico al mondo a fare levatacce: ma certamente Davide Dattoli, 26enne startupper bresciano e globetrotter, rientra in quella buona fetta di innovatori mondiali che iniziano a mordere la vita sin dalle prime luci dell’alba.
La sua rete oggi conta 18 campus in 6 Paesi europei, con oltre 1900 “taggers” tra startupper, aziende e liberi professionisti. Il tutto gestito da un team di una settantina di persone, al 60% donne. “Negli ultimi due anni abbiamo lavorato tantissimo all’internazionalità. Di fatto abbiamo costruito un modello per non essere soltanto coworking, ma anche scuola di formazione, luogo di relazioni, spazio per crescere, formarsi, confrontarsi. Ci siamo resi conto che questo modello funziona e tutto questo ci ha dato la spinta per crescere ancora”.
Lo sguardo internazionale
Già, crescere. In Italia e in Europa, guardando al resto del mondo. “Non può più nascere una startup con un respiro nazionale. Abbiamo bisogno di scalare. Ecco perché oggi stiamo lavorando in quest’ottica e a breve annunceremo la nostra crescita europea. Che significa anche preservare e far crescere l’ecosistema italiano, ma con uno sguardo più ampio” precisa Davide. D’altronde partire da grandi… per restare grandi. La ricetta di Dattoli si declina anche sui numeri. Necessariamente grandi, si potrebbe dire. Lui la sua rivoluzione l’ha fatta partire da Brescia, a cento chilometri da Milano, in uno spazio di 750 metri quadrati aperto il primo dicembre 2011. Quindi un grande spazio. E in sei anni quanta strada è stata fatta. Lui si definisce co-founder. Gli chiedo perché. La risposta è tanto semplice quanto disarmante. “In realtà ciascun Talent Garden ha un suo co-founder, e io condivido la paternità con gli altri innovatori sparsi in Italia e in Europa”.
Davide, in un mondo che incentiva le dinamiche digitali di fatto hai contribuito a recuperare la dimensione fisica, quella legata al confronto dal vivo. Non ti senti controcorrente?
“Il mondo del lavoro cambia velocemente, ma attenzione: lavorare connessi non esclude il sapersi incontrare e confrontarsi dal vivo: è questa la forza dei Talent Garden sparsi un po’ ovunque in Italia e in Europa. Il rischio è che si viva troppo connessi. Oppure in riunione. Lo dico spesso al mio team: Ragazzi, non passate il tempo in riunione a fissare altre riunioni per poi fissare delle altre riunioni ancora. In realtà ciò che registriamo anche col coworking è che il tornare ad esser vicini anche fisicamente, prendersi un caffè insieme, migliora il rendimento sul lavoro. Il digitale, quindi, ci dà anche un ritorno alla fisicità”.
Tornare ad esser vicini anche fisicamente, prendersi un caffè insieme, migliora il rendimento sul lavoro. Il digitale, quindi, ci dà anche un ritorno alla fisicità
C’è stata una evoluzione dell’ecosistema italiano in questi due anni?
“Io credo di sì: iniziano ad esserci più realtà. E non ci sono più soltanto stimoli, ma dinamiche più strutturate. C’è certamente meno storytelling e ancora meno l’effetto del singolo che cambia il mondo: l’innovazione delle startup si palesa in esperienze industriali, con un piano di crescita anche aggressivo”.
Ma per crescere e per pensarsi come azienda solida occorre affrontare il tema della sostenibilità. E spesso si dice che in questo caso “il piatto piange”…
“Oggi il tema della liquidità deve essere dato quasi per scontato. Il fundraising – e tutti gli elementi connessi alla raccolta fondi – non può essere nel tempo il problema principale. Peraltro ciò che abbiamo registrato è che quando un modello imprenditoriale inizia a funzionare, la liquidità non è un problema. Ma è sbagliato parametrare mercati differenti: per esempio per noi è imparagonabile il mercato americano, dove il nostro principale competitor ha raccolto quasi due miliardi e seicento milioni di dollari”.
Oggi il tema della liquidità deve essere dato quasi per scontato. Il fundraising non può essere nel tempo il problema principale
Abbiamo sempre associato la vostra crescita alle vostre aperture, con inaugurazioni memorabili (l’ultima, quella di Torino, ha fatto parecchio parlare). Continuerete a tagliare nastri inaugurali?
“Nel nostro futuro non c’è la crescita in una o più città, ma un progetto complessivo. Il nostro obiettivo è avere una forte identità locale nei diversi settori, ma esportando il work learn connect: dobbiamo lavorare mettendo insieme i talenti che già ci sono, formarli alle professioni del domani. C’è una responsabilità di formazione, che poi si traduce in immissione nel mondo delle imprese”.
Ecco il perché della vostra TAG Innovation School, guidata da Alessandro Rimassa…
“Siamo orgogliosi del lavoro della nostra scuola. Calcola che a settembre 2017 stiamo lavorando per raggiungere duecentocinquanta studenti. Di fatto ogni anno arriveremo a formarsi sui temi chiave più di cinquecento persone, inserendo nel mercato nuove competenze”.
Per StartupItalia! ti ho intervistato un paio di anni fa e mi ha colpito come hai descritto Calabiana, lo spazio con la storica tipografia che nel 1842 stampò i Promessi Sposi di Manzoni: “il più bel luogo possibile”…
“Alla partenza di Calabiana eravamo emozionatissimi. Calabiana ha rappresentato e ancora oggi rappresenta un campus d’innovazione, un luogo di contaminazione. All’epoca era stato l’investimento più grosso mai fatto. E non a caso a Milano, perché nel lanciarlo c’è stato tutto l’orgoglio di essere italiani e di partecipare alla rivoluzione di una città che brulica di entusiasmo e voglia di fare”.
Connettere territori, competenze, talenti, imprese. Una visione che va molto oltre il coworking e che ci porta necessariamente ad un tema di recruiting: le giuste persone al posto giusto?
“Certamente. E un ragionamento di questo tipo va fatto subito con un pensiero internazionale. In quest’ottica occorre partire dal recruiting per approdare al business. L’azienda globale va costruita partendo dalle persone. Anche pagandole di più, quelle persone. Perché dobbiamo entrare nell’ottica che le professionalità migliori costano. E se il modello funziona i soldi non sono un problema”.
Primo, avere un respiro internazionale. Secondo, lavorare sul team. Terzo, pensare sempre in grande
Tre consigli che ti senti di dare alla community degli startupper, quella che si riunirà lunedì 18 dicembre 2017 a Milano per il nuovo StartupItalia! Open Summit 2017?
“Primo, avere un respiro internazionale: la partita non si gioca più in uno scacchiere locale che di fatto diventa troppo limitato. Secondo, lavorare sul team: è sempre la squadra che fa la differenza. In questo senso occorre investire risorse anche economiche per portare a bordo e gratificare i talenti. Terzo, pensare sempre in grande, con tanta ambizione ma anche la capacità di mettere a terra i progetti con metodo e dedizione”.