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La mobilità del futuro nasce nel parmense e da lì conquista il mondo intero. «Siamo stati i primi a fare test di guida automatica». In attesa del nuovo StartupItalia! Open Summit di dicembre intervista ad Alberto Broggi, papà di VisLab, la startup dell’anno nell’ultimo SIOS
L’auto del futuro è nata in Italia, precisamente a Parma. Ed è sempre in Italia che – col rispetto delle limitazioni di legge – ha anche in parte scorrazzato. E l’ha fatto per la prima volta addirittura quasi vent’anni fa, precisamente nel 1998, molto tempo prima che in altre parti del pianeta si iniziasse a ragionare di auto del futuro.
Una storia, quella dell’auto senza pilota, che fa rima con ricerca universitaria, made in Italy, eccellenza, visione. E con la capacità di intercettare tendenze di mercato mondiali molto prima di altri: questa è Vislab, un’intuizione geniale diventata sistema, nata in ambito universitario come spinoff dell’Università di Parma e trasformata in impresa.
Sensori, telecamere e l’idea del basso costo
Si tratta di una creatura nostrana da subito focalizzata a sviluppare soluzioni a supporto dei veicoli driverless. «Abbiamo iniziato nel laboratorio della facoltà di ingegneria, provando a sviluppare i primi temi legati alla guida automatica. È stato un percorso straordinario, semplice da raccontare e al tempo stesso complesso e affascinante da realizzare», racconta Alberto Broggi, docente di Computer Engeneering all’Università di Parma e General manager di VisLab.
All’inizio quella della guida autonoma era un’impresa assai complessa. «Nel 1998 circolava su strada il primo prototipo con il bagagliaio colmo di computer». In generale dalla fine degli anni ’90 ci sono stati pochi team nel mondo che hanno iniziato a lavorare a questi progetti. «Noi da sempre abbiamo puntato sull’idea del basso costo, ovvero di una macchina normale con un calcolatore con costi contenuti. Altri invece avevano bauli pieni di pc. L’idea del basso costo è rimasta nel tempo e oggi l’abbiamo integrata all’uso di telecamere e sensori. Oggi tutta l’elaborazione è in un chip», precisa Broggi.
Eccellenza nel mondo, ma con radici solide in Italia
L’auto del futuro è nata proprio in quelle vallate del parmense apostrofate come la Motor Valley italiana. Ed è nata in università, per poi uscirne fuori (ma in qualche modo portandosela dentro).
In questo progetto il tempo ha fatto la differenza. Come in tutti i progetti d’eccellenza. Perché arrivare prima degli altri significa essere esploratori di mondi nuovi. E quindi giocare in attacco, con un vantaggio competitivo. «Nel 2009 abbiamo fatto partire questa startup all’interno della quale c’era anche l’università come socio. E devo dire che da subito è stato un progetto di crescita con una visione allargata. Di fatto facevamo cose che nessuno aveva mai fatto. Siamo stati i primi al mondo a fare test di guida automatica. Ecco perché siamo una eccellenza italiana nel mondo, ma con radici solide nel territorio». Nel luglio 2015 l’acquisizione da parte di Ambarella, colosso californiano leader mondiale per le tecnologie per la compressione delle immagini, con 30 milioni di euro e un piano di stock options per mantenere coinvolti i 38 ricercatori. Il trasferimento è di tecnologie, non di cervelli.
“Abbiamo iniziato a fare cose che nessuno avevamo mai fatto. E abbiamo scelto di diventare grandi per competere tra grandi”
L’intervista
Professor Broggi, gli ultimi due anni sono stati segnati dall’acquisizione. Ma non vi siete trasferiti in Silicon Valley. Anzi, in un certo senso avete spostato la California in Italia. Come avete fatto?
«Gli americani hanno capito il valore di rimanere sul territorio. E peraltro questo elemento è stato un paletto del deal. Oggi possiamo dire che non ci siamo spostati in California e stiamo crescendo a Parma. In un certo senso possiamo davvero dire che la California l’abbiamo portata a Parma. Abbiamo incrementato il numero di persone e oggi siamo in 47, mentre due anni fa eravamo una trentina. E poi abbiamo rinsaldato il collegamento con l’università: nel campus abbiamo fatto costruire il nostro nuovo edificio in cui ci trasferiremo a brevissimo e oggi prendiamo studenti e li immettiamo nel mondo del lavoro».
Nei fatti avete messo in pratica ciò che teoricamente si descrive come trasferimento tecnologico. In che modo siete riusciti nell’impresa di fare impresa?
«Siamo partiti come piccola e veloce startup di provincia, ma con pochi finanziamenti. Avevamo solo i nostri progetti di punta supportati delle aziende. In realtà però non abbiamo mai chiesto a nessuno di fare progetti, sono stati gli altri a cercarci, anche perché siamo stati da sempre i primi a fare qualcosa».
“Quando i big player hanno cominciato a farsi vedere, noi dovevamo necessariamente diventare grandi, altrimenti i grandi per davvero ci avrebbero schiacciati”
Cosa ricorda dei primi anni?
«Ricordo il Parma-Shangai nel 2010 ben prima che altri più noti emergessero nell’ecosistema della nuova mobilità. Abbiamo fatto dei test di guida automatica in città qui a Parma. Però poi quando i big player hanno cominciato a lavorare e a farsi vedere noi dovevamo necessariamente diventare grandi, altrimenti i grandi per davvero ci avrebbero schiacciati».
Diventare grandi per competere tra i grandi. Semplice a dirsi, ma immagino difficile a farsi. Che strategia ha adottato?
«Ho iniziato a guardarmi intorno fino 2013 con l’ossessione di diventare grandi. Ho iniziato a dialogare con investitori, aziende, business angels. Poi nel 2015 l’incontro felicissimo e il match industriale perfetto tra noi che sviluppiamo algoritmi per la visione artificiale e Ambarella che sviluppa chip per la visione. Loro esperti di hardware e noi di software. Una contaminazione perfetta a livello industriale e valoriale. La loro realtà in Silicon Valley era energica proprio come la nostra».
Cosa ha rappresentato l’acquisizione?
«Direi che è stata il punto di svolta. Fino ad allora avevamo sempre incrementato il numero di persone e attività, ma lì c’è stata la svolta».
Nella ricerca di partner all’inizio ha avuto anche a che fare con realtà nostrane?
«Certo, ho incontrato anche investitori italiani, li ho visti interessati, solo che i numeri non erano quelli che ci servivano a noi. Ci avrebbero finanziato, ma con investimenti limitati e non era ciò che richiedevamo. La guida automatica era già un tema caldissimo e in Silicon Valley gli investitori erano interessati. Noi eravamo i primi già con un background di una quindicina d’anni».
“Non siamo lontanissimi per avere sul mercato queste dotazioni. Tutte le case automobilistiche ci stanno lavorando e hanno dei prototipi, ma il problema che riguarda anche noi è legato ai test”
Azienda internazionale con cervelli e cuore in Italia. Ma che legame c’è con la motor valley?
«La motor valley di cui si parla tanto è molto meccanica, perché opera sul motore. Non c’è nessuno che fa informatica o elettronica di bordo e mi piacerebbe ci fosse un legame più stretto. In questi anni abbiamo stretto un unico legame con Dallara: insieme a loro abbiamo sviluppato un pezzettino del nostro progetto. Oggi comunque sta nascendo l’università della motor valley e metteremo a fattor comune le conoscenze».
Nella vostra attività di ricerca quanto conta la squadra?
«Tutto! Noi siamo ingegneri che realizzano, confrontandosi con problemi quotidiani. E il lavoro di gruppo, specie se è un gruppo affiatato, fa la differenza. In questo senso il lavoro da solisti sarebbe impossibile».
Che tipo di ricerca affrontate?
«Nel tempo le competenze sono diventate ancora più tecniche, quindi non ci stiamo ibridando con altri ambiti, semmai ci stiamo iperspecializzando».
La domanda che le faranno tutti: quando vedremo nelle strade auto senza guidatore?
«Non siamo lontanissimi per avere sul mercato queste dotazioni. Tutte le case automobilistiche ci stanno lavorando e hanno dei prototipi, ma il problema che riguarda anche noi è legato ai test: per usare queste tecnologie bisogna testarle e in strada, il circuito è un ambiente troppo amichevole e protetto, bisogna sperimentare in condizioni reali. In Italia non c’è una legislazione che consente di fare questi test ed ecco perché ci stiamo spostando in America. Questo resta un grosso problema per il nostro Paese e non ci facilita il restare qui. Già adesso comunque ci sono sistemi di guida parzialmente autonoma, anche se sono di ausilio alla guida, quindi la responsabilità è del guidatore».
A proposito di test, voi però siete riusciti ad avere autorizzazioni speciali. D’altronde le prime guide nel parmense sono entrate nella storia…
«Certo, siamo riusciti ad avere autorizzazioni particolari dal comune di Parma e da Anas, ma soltanto in certe zone e in certi momenti e invece il test è fondamentale effettuarlo in modo libero».
“Il premio dello StartupItalia! Open Summit è stato fenomenale: avevamo appena finito l’acquisizione e gli attestati di fiducia ci arrivavano soprattutto da fuori Italia. La soddisfazione è stata poi maggiore perché a Milano c’erano molte altre startup con storie incredibili”
Cosa ha rappresentato vincere l’ultimo StartupItalia! Open Summit?
«Quel riconoscimento è stato fenomenale: avevamo appena finito l’acquisizione e gli attestati di fiducia ci arrivavano soprattutto da fuori Italia. Il premio ci ha presentato sulla stampa e agli occhi dell’opinione pubblica e come competitivi, un riconoscimento italiano che ci ha reso ancora più orgogliosi. La soddisfazione è stata poi maggiore perché a Milano c’erano molte altre startup con storie incredibili».
L’auto senza guidatore sta moltiplicando una serie di riflessioni etiche nel rapporto uomo-macchina e anche nelle scelte da compiere. Qual è il suo parere?
«Il problema dell’etica è un problema affascinante ma è ancora acerbo. Risolverlo è impossibile perché non abbiamo ancora i mezzi per coglierlo nella sua interezza. Il sistema deve prendere decisioni che impattano sulla vita delle persone e le prende sulla base dei dati. E questi dati che abbiamo non riusciamo ancora ad adattarli su un sistema automatico. È ancora l’uomo che ha un quado completo della situazione ad oggi».
Tre consigli per gli startupper che iniziano un percorso imprenditoriale?
«Difficile sintetizzare, ci sarebbero tante considerazioni da fare. Certamente occorrecredere nelle cose che si fanno, avere una base di ricerca e concretezza e circondarsi di persone motivate con cui si possa portare avanti un lavoro di eccellenza. Io l’ho provato sulla mia pelle: i giovani con cui ho iniziato a fare impresa sono persone d’oro, uno startupper da solo fa poco, non è più il tempo per giocare da solisti».
@gpcolletti