Una simile non inedita abitudine, qualche tempo fa il Corriere della Sera fece qualcosa di simili pubblicando un volumetto su Charlie Hebdo poi travolto dalle polemiche e infine ritirato, ripropone una domanda non banale. Chi possiede le parole e le immagini che postiamo su Internet? La risposta è semplice e largamente ignorata: la proprietà intellettuale delle nostre cose è nostra. La offriamo in concessione non esclusiva alle piattaforme sulle quali scegliamo di pubblicarle, così c’è scritto nei Termini di Servizio che firmiamo quando apriamo un profilo su Facebook o su Twitter, ma restano comunque nostre.
Questo in teoria. La violazione di una simile norma è amplissima e quotidiana. E molto spesso gioca intenzionalmente proprio sulla citazione della fonte, uno dei vecchi capisaldi del galateo digitale. Ma la corretta attribuzione non esaurisce il problema, come molti sembrano volerci far credere. La citazione è condizione sufficiente negli ambienti paritari ma non lo è più quando i nostri contenuti vengono utilizzati a scopo di lucro. In questo caso serve una nostra autorizzazione o, in alcuni casi, un accordo economico che renda il brillante battutista, o il creatore di un video che i giornali online hanno ripubblicato sui loro siti aggiungendo il loro enorme logo, partecipe degli incassi. Immaginarsi che questo avvenga, in Italia nel 2018, è poco più di una battuta.