Quali sfide attendono la società di domani? Quali sono i rischi e quali le possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico? Per la rubrica “Futuro da sfogliare” un estratto del libro Elonomics di Angelica Migliorisi e Luca Salvioli, edito da Il Sole 24 Ore.
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Per gran parte della sua carriera, Elon Musk ha cercato di tenersi lontano dalla politica intesa in senso tradizionale. L’immagine costruita nel tempo è quella di un imprenditore visionario, più interessato a Marte che a Washington, più focalizzato sulla fusione nucleare che sulle coalizioni parlamentari. Eppure, nel corso dell’ultimo decennio, questa distanza si è progressivamente accorciata, fino a trasformarsi in un rapporto simbiotico – e potenzialmente destabilizzante – con il potere politico. La traiettoria che lo ha portato da una posizione centrista e tecnocratica a un’esplicita vicinanza al trumpismo è tutt’altro che lineare. È un processo che intreccia delusione, conflitto, identità personale e strategia. Musk non è passato da Obama a Trump per calcolo, ma per collisione: con lo Stato, con l’establishment culturale, con la regolamentazione, con ciò che percepisce come ostacolo all’innovazione. Le sue posizioni si sono indurite nel momento in cui ha iniziato a vedere la politica non come alleata, ma come nemica della velocità, dell’efficienza, del progresso.

La trasformazione politica di Elon Musk
Il percorso politico di Elon ha conosciuto un’evoluzione sorprendente nel corso degli anni. Inizialmente, le sue scelte di voto e il suo sostegno a candidati di diversi schieramenti riflettevano un approccio moderato e pragmatico. Nel 2014, si descrive «a metà tra democratici e repubblicani». Fino al 2016, dona a candidati di entrambi gli schieramenti, ma con una leggera prevalenza verso i dem. Nel 2008, vota Barack Obama e fa una fila di sei ore per stringergli la mano. Nel 2012 vota Hillary Clinton. Nel 2016 Joe Biden. Allo stesso tempo, finanzia anche candidati repubblicani moderati, mantenendo una posizione strategica. Negli anni in cui l’amministrazione Obama promuoveva politiche favorevoli alle energie rinnovabili e alla transizione verso tecnologie più pulite, Elon Musk ha trovato un terreno fertile per mettere in pratica la sua visione imprenditoriale.
Mentre il governo cercava di incentivare un cambiamento ecologico, lui, attraverso imprese come Tesla, SolarCity e SpaceX, rispondeva con progetti ambiziosi che ridefinivano il futuro della mobilità e dell’esplorazione spaziale. Il suo approccio si fondava su un delicato equilibrio tra spinta imprenditoriale e volontà di sfruttare le opportunità del libero scambio e dalla collaborazione tra settore privato e istituzioni governative. In un periodo in cui le sovvenzioni e i crediti d’imposta erano fondamentali per sostenere lo sviluppo di tecnologie innovative, Tesla, in particolare, beneficiò in maniera decisiva di tali misure. Nel 2010, il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti concesse prestiti governativi per 465 milioni di dollari: un aiuto strategico che permise all’azienda di rafforzare la propria posizione nel mercato delle auto elettriche, ancora in una fase di vulnerabilità finanziaria.

I finanziamenti dimostrarono non solo l’importanza delle politiche governative nel favorire l’innovazione tecnologica, ma anche come la sinergia tra pubblico e privato potesse contribuire a trasformare radicalmente interi settori industriali. Parallelamente, SpaceX ottenne contratti di rilievo con la Nasa. I benefici di cui le aziende di Elon godono in modo sostanziale implicano, per definizione, un intervento statale contrario all’ideale libertario di un mercato completamente libero. In pratica, se da un lato Musk promuove la riduzione dell’intervento governativo, dall’altro le realtà imprenditoriali in cui opera hanno dovuto contare su supporti esterni per crescere e competere.
Mingardi crede che «c’era senza dubbio una questione di interesse nella sua predisposizione verso i democratici, visto che i repubblicani negli Stati Uniti hanno cercato di rallentare, di opporsi alle politiche green, mentre i dem le hanno cavalcate. Ed è evidente che i sostegni pubblici di cui ha beneficiato sono poco coerenti con il suo libertarismo di fondo. Eppure, penso che quella del campo democratico, in quel periodo, non fosse solo una scelta di comodo, ma che avesse una reale simpatia». Come si spiega, allora, il cambio di rotta verso il partito repubblicano fino, addirittura, all’endorsement plateale nei confronti di Donald Trump? Per lungo tempo, Musk ha creduto che l’uomo del Make America Great Again non fosse adatto a governare gli Stati Uniti e lo definiva «un artista delle stronzate». Poi, due eventi influenzarono profondamente la sua visione politica.

Nel 2020, mentre molti leader mondiali imponevano lockdown e misure restrittive per arginare il propagarsi del Covid-19, Musk esprimeva un dissenso sempre più forte contro queste politiche. Con tweet provocatori come «il panico da Coronavirus è stupido », criticava il rigido intervento statale, sostenendo che fosse un attacco alle libertà individuali e un ostacolo all’innovazione. Per Mingardi, «Musk è fra quanti hanno vissuto il Covid come un vero e proprio shock, come la prova che poteva realizzarsi nel nostro tempo di vita un insieme di restrizioni alle libertà personali che non abbiamo mai immaginato. Ha visto il contrasto alla pandemia, il lockdown, come una straordinaria limitazione della libertà individuale. È questo che, nel tempo, lo ha portato ad allinearsi a Trump, che pure in passato aveva ferocemente criticato». Il governatore della California, il democratico Gavin Newsom, impose un lockdown su scala statale adottando misure rigorose; altri Stati, come il Texas, guidato dai repubblicani, optarono per restrizioni meno severe. Il partito democratico iniziò ad apparire a Elon come «il partito della divisione e dell’odio», colpevole di aver abbandonato le politiche centriste e di essere troppo influenzato dalla cultura woke.
La cultura woke è emersa come fenomeno socioculturale negli Stati Uniti all’interno delle lotte per i diritti civili e ha guadagnato notorietà attorno al 2010, in parte grazie all’influenza di movimenti come Black Lives Matter e all’ampia diffusione tramite i social media. È un concetto strettamente legato alla consapevolezza e all’impegno nel combattere ingiustizie, disuguaglianze e discriminazioni, affrontando temi quali razzismo, sessismo, omofobia, cambiamento climatico e altre questioni di giustizia sociale. Se da un lato viene concepito come uno strumento utile a favorire il progresso collettivo, per molti rappresenta una deriva del “politicamente corretto” che sfocia in un estremismo liberale. Per Musk, in particolare, è una sorta di «tirannia morale» che impone un’unica visione del mondo, costringendo gli individui a una «veglia permanente » che alimenterebbe paura e conformismo.
Elon cominciò così a orientarsi verso posizioni anti-interventiste e a esprimere una crescente simpatia per le politiche di deregolamentazione. Il suo richiamo, affidato ancora una volta a Twitter, alla “pillola rossa” – un’analogia tratta dal film Matrix (1999) – divenne un simbolo per invitare i suoi seguaci a risvegliarsi dalle restrizioni imposte e a rifiutare la narrativa ufficiale, che vedeva come un mezzo per limitare il dissenso e l’innovazione. Mentre molti leader adottavano misure di sicurezza, Musk utilizzava Twitter per sollevare dubbi e criticare apertamente le politiche di controllo, ponendo l’accento sull’importanza della libertà economica e individuale come base per un vero progresso sociale. Pur non definendosi apertamente repubblicano, le sue affermazioni e i suoi comportamenti iniziarono a rispecchiare un’ideologia che abbracciava in maniera più esplicita il pensiero conservatore in materia di libertà economica e individuale. C’è poi un altro evento, stavolta di natura familiare, che ebbe ripercussioni inaspettate sulla sua visione politica. A giugno 2022, Xavier Alexander Musk, figlio di Elon, annunciò la sua transizione di genere, scegliendo di adottare il nome Vivian Jenna Wilson, quindi il cognome della madre, Justine, la prima moglie dell’imprenditore.
Nei documenti legali depositati presso il tribunale della contea di Los Angeles, la giovane spiegò di non volersi più identificare in alcun modo con il padre biologico, segnando una svolta personale e simbolica. Durante una discussione su Twitter (che intanto, acquistato da Musk, aveva assunto il nome di X) Elon, assieme allo psicologo e commentatore conservatore Jordan Peterson, espresse opinioni radicali: affermò che «suo figlio era stato ucciso dal virus mentale woke». La sua trasformazione politica, ormai, è completata. E, nel 2022, annuncia su X che nelle successive elezioni di midterm voterà per i repubblicani. Eppure, nonostante il suo sostegno progressivo al GOP (Grand Old Party), sarebbe sbagliato definire Elon un suo seguace. Mingardi, per esempio, crede che non sia né repubblicano né democratico, ma che anzi abbia una forma di disprezzo per i partiti e gli uomini politici.
«È il genere di persona che guarda a Washington in parte come un pericolo dal quale difendersi, in parte come una specie di agglomerato di mediocrità. A uno che è abituato a lavorare con persone che hanno una velocità mentale inconsueta – ancorché super-tecnici dedicati alla risoluzione di problemi molto pratici e molto minuti – il governo sembra una cosa che va avanti per inerzia. Penso che Musk avesse e abbia delle sensibilità politico-culturali e poi sul menù della politica, come tutti, sceglie sulla base dei piatti disponibili. Non ho dubbi che avrebbe preferito fare il suo endorsement a Ronald Reagan, per intenderci».

Il rapporto con Donald Trump
Il legame tra Elon Musk e Donald Trump è forse una delle storie più affascinanti e complesse degli ultimi decenni. Una dinamica che ha subìto trasformazioni profonde nel tempo, passando da un iniziale distacco a un’alleanza strategica e, infine, a un sostegno pubblico e finanziario che ha influenzato il panorama politico americano. Per arrivare poi alla frattura sui dazi. Le prime interazioni tra i due, limitate a inviti a gruppi di consulenza economica, erano segnate da una freddezza reciproca, con Musk che, nonostante la sua partecipazione a iniziative politiche, sembrava ancora rimanere al margine del discorso repubblicano.
Durante l’amministrazione Biden, le aziende di Elon – in particolare Tesla, SpaceX e X – divennero oggetto di numerose indagini federali. Le inchieste vertevano su questioni rilevanti, come il sistema di guida autonoma di Tesla, le accuse di discriminazione razziale e di genere all’interno dell’azienda automobilistica e l’impatto ambientale dei lanci di SpaceX. Agli occhi di Musk, lo Stato stava limitando l’innovazione. Un evento che si rivelò decisivo nel cambiare il corso della relazione tra Musk e Trump fu l’acquisizione di Twitter/X. Questa mossa strategica, compiuta dopo una fase di iniziale esitazione che verrà approfondita nel prossimo capitolo, rappresentò non solo un investimento economico, ma anche un chiaro segnale di come l’imprenditore volesse prendere il controllo del discorso pubblico.
Con Twitter, Musk ha potuto bypassare i canali mediatici tradizionali, diffondendo i suoi messaggi senza filtri e orientando il dibattito su temi che riteneva fondamentali: dall’opposizione alla cultura woke alla necessità di una deregolamentazione. Nonostante Trump in un primo momento avesse espresso dubbi sul futuro di Musk come proprietario della piattaforma, il successo dell’operazione e la sua capacità di utilizzare Twitter/X come megafono politico iniziarono a consolidare il loro rapporto. Le dichiarazioni in cui criticava aspramente le restrizioni imposte dal governo durante la pandemia e attaccava il “virus mentale woke” trovavano eco nella retorica del presidente, che da tempo enfatizzava l’importanza di una leadership forte e deregolamentata. Il 13 luglio 2024, durante la campagna presidenziale che vedeva contrapposti Trump per i repubblicani e Kamala Harris per i democratici, un episodio segnò una svolta definitiva.
Durante un comizio a Butler, in Pennsylvania, l’ex inquilino della Casa Bianca rimase vittima di un attentato: vennero sparati otto proiettili, uno dei quali colpì il candidato repubblicano all’orecchio destro, causandogli una ferita superficiale. L’attentato, rapidamente fermato dai membri del Secret Service, venne interpretato dai seguaci di Trump come un attacco diretto alla democrazia americana. Musk intervenne immediatamente su X: «Trump è un leader forte e necessario». Le sue parole risuonavano come un appello alla coesione e alla difesa dei valori della libertà individuale, elementi che, a suo dire, erano minacciati dalle restrizioni governative e dalle narrazioni imposte dai media tradizionali.
Da qui, l’endorsement ufficiale al ritmo di Leadership matters (“La leadership conta”), un messaggio che invitava i suoi follower a unirsi al movimento a favore del candidato repubblicano. Nel corso della campagna elettorale del 2024, Musk sfruttò la sua immensa piattaforma mediatica per orientare il dibattito pubblico, concentrando l’attenzione su temi centrali come l’opposizione alla cultura woke, la promozione della libertà economica e la necessità di una maggiore deregolamentazione. Il suo impegno, però, non si limitò alla sfera mediatica: divenne presto uno dei maggiori finanziatori della campagna presidenziale repubblicana, investendo in genti somme per sostenere la candidatura di Trump. Secondo i documenti della Commissione elettorale federale, Elon spese oltre 250 milioni di dollari, con donazioni tramite America PAC e RBG PAC. A settembre 2024, durante un altro comizio, Trump annunciò l’intenzione di creare una Commissione per l’efficienza del governo. In un gesto che consolidò ulteriormente la loro alleanza, Musk fu scelto per guidare la nuova iniziativa. L’imprenditore accettò pubblicamente l’incarico e a novembre, dopo la vittoria elettorale, fu ufficialmente nominato a capo del nuovo Dipartimento per l’efficienza governativa, noto come Doge, con l’obiettivo di ridurre le spese e semplificare le regolamentazioni federali. Un aspetto fondamentale dell’evoluzione del rapporto tra Musk e Trump è il loro comune attacco alle ideologie che, secondo entrambi, minacciano la libertà individuale. Trump, fin dalla sua prima presidenza, ha fatto della lotta contro il wokeismo un pilastro della sua retorica, criticando l’influenza eccessiva delle ideologie progressiste sul dibattito pubblico. Musk, da parte sua, ha abbracciato questo punto di vista. Entrambi vedevano (e vedono) nei media tradizionali e nelle piattaforme social una censura ingiustificata, che favoriva una narrazione unilaterale e impediva la libera espressione. L’anti-wokeismo divenne allora un terreno comune su cui costruire una retorica condivisa, incentrata sulla difesa della libertà economica e individuale.

Musk ha saputo sfruttare le dinamiche dei media digitali per superare i confini tradizionali della politica, fondendo il suo spirito imprenditoriale con una comunicazione altamente personalizzata. Questa capacità di plasmare la narrativa, rendendo il proprio brand sinonimo di audacia e dissenso agli occhi dei suoi seguaci, ha offerto a Trump un partner inaspettato, capace di reinterpretare i concetti di leadership e deregolamentazione in chiave moderna. Come spiega Mingardi, «Musk gioca da solo. La cosa che ha fatto è la cosa più simile alla discesa in campo di Silvio Berlusconi sotto alcuni aspetti, solo che fatta senza scendere davvero in campo. Ha colto l’opportunità della personalizzazione, che ha fatto sì che Trump avesse la possibilità di abbracciare totalmente una figura come la sua. E poi si è messo in mezzo. È un uomo che nel giro di quattro anni è passato dall’essere un grande imprenditore, un innovatore, a diventare una figura mediatica internazionale, più famoso delle star di Hollywood e più controverso nei suoi pronunciamenti pubblici. Se è una strategia, è davvero rischiosissima ma anche geniale».
Il DOGE
Verso le 9 di mattina (ora locale) del 21 marzo 2025, Elon Musk è stato visto entrare al Pentagono per un incontro con il segretario alla Difesa Pete Hegseth e altri alti funzionari. La visita è apparsa subito anomala, considerando che Musk è Ceo di aziende come SpaceX e Tesla, entrambe con contratti attivi con il Dipartimento della Difesa. Ma ciò che ha sollevato maggiore attenzione sono state le indiscrezioni secondo cui Elon sarebbe stato informato su piani operativi statunitensi per un’eventuale guerra con la Cina. Voci alimentate da un’inchiesta del “New York Times”, poi smentite dallo stesso Trump e da Hegseth, anche via X.
Il presidente ha affermato che la Cina «non sarà nemmeno menzionata» durante il briefing e ha accusato la testata di diffondere notizie false, aggiungendo: «Musk sta facendo un lavoro straordinario per smascherare sprechi e frodi, ma ha interessi in Cina e sarebbe in una posizione delicata». Il sospetto però resta: i cosiddetti O-plan, i piani operativi delle forze armate americane, sono tra i documenti più riservati dell’apparato militare. Secondo il “New York Times”, il briefing con Musk avrebbe incluso 20-30 diapositive con dettagli su una strategia di guerra contro Pechino, con potenziali obiettivi militari da sottoporre al presidente.
Sarà forse il tempo a dirci se Musk è stato realmente messo al corrente di informazioni così sensibili. Quel che è certo, però, è lo strapotere che il sudafricano ha assunto una volta messo piede alla Casa Bianca come capo del Dipartimento per l’efficienza governativa. Quando Elon era salito sul palco durante l’insediamento di Donald Trump, il 20 gennaio 2025, era come se la Silicon Valley si fosse trasferita a Washington. Non era solo la presenza fisica dell’imprenditore più famoso del mondo accanto al presidente più divisivo della storia americana.
Era l’inizio di una mutazione istituzionale profonda, in cui l’idea stessa di governo, efficienza e autorità veniva riplasmata a immagine e somiglianza dell’uomo che ha rivoluzionato l’industria automobilistica, lo spazio e i social media. Musk è entrato ufficialmente nella cosa pubblica. Non come semplice consulente o sostenitore. Ma come figura chiave della nuova amministrazione: tecnicamente, un «impiegato governativo speciale», nella pratica un plenipotenziario. Nessun funzionario ha mai avuto tanto potere operativo in così poco tempo. Il suo compito è ridurre la spesa pubblica federale di due trilioni di dollari, ripensare la macchina statale come un’azienda tecnologica e imporre un modello di efficienza radicale ispirato alla cultura startup.

È un passaggio storico, ma non privo di precedenti culturali. L’idea che la pubblica amministrazione debba funzionare come un’azienda ha radici profonde nell’immaginario neoliberale americano. Musk, però, va ben oltre. Il suo approccio è modellato da quell’ethos transumanista per cui l’essere umano, e per estensione anche le sue istituzioni, debba essere superato, potenziato, reso più performante attraverso l’uso della tecnologia, della razionalizzazione algoritmica e della disintermediazione. I primi atti del Doge sono stati dirompenti. In meno di una settimana, il Dipartimento ha sostenuto di aver identificato 5,6 miliardi di dollari di sprechi. Ma quello sarebbe stato solo l’inizio.
Elon Musk ha ordinato la chiusura della Usaid, l’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, simbolo storico del soft power a stelle e strisce. Ha proposto l’abolizione del Dipartimento dell’Istruzione, sostenendo che l’educazione dovesse tornare sotto il pieno controllo degli Stati. Ha riorganizzato l’intera struttura federale riducendo da oltre 400 a meno di 100 le agenzie operative. In poche ore, 200mila dipendenti federali hanno ricevuto un’email dall’oggetto inequivocabile: Fork in the road (“Bivio”). Le stesse parole usate due anni prima per licenziare i dipendenti di Twitter.
Il metodo Musk si era trasferito intatto da San Francisco a Washington: disintermediazione, velocità, gerarchia assoluta. Al suo fianco, un gruppo selezionato di giovani collaboratori, battezzati dalla stampa Doge Kids: ventenni provenienti da Neuralink, SpaceX e X, privi di esperienza amministrativa, ma devoti al loro leader. Alcuni hanno precedenti controversi o posizioni ideologiche estreme. Si muovono negli uffici governativi in jeans e felpa, hanno portato con sé materassi, zaini pieni di laptop e badge temporanei. Ignorano le procedure, scavalcano le gerarchie e prendono decisioni cruciali con il solo supporto del carisma di Musk.
Il team ha operato per lungo tempo con accesso diretto ai sistemi informatici di molte agenzie federali, incluso il Dipartimento del Tesoro, il Dipartimento dell’Istruzione e l’Ufficio di Gestione del Personale. I dati consultati includevano informazioni bancarie, fiscali e previdenziali di milioni di cittadini americani. Due piattaforme chiave, Payment Automation Manager e Secure Payment System, sono finiti nel loro mirino e alcuni tecnici – come il giovane Marko Elez – hanno ottenuto accesso completo al codice sorgente.
Un livello di autorizzazione che, in teoria, consente di interrompere l’erogazione dei fondi federali. Con il controllo informatico sul flusso del denaro pubblico, il Dipartimento si avvicina a quella che un ex funzionario sentito da “Wired US” ha definito «la leva atomica della governance». I sistemi che erogano pensioni, sussidi sanitari, rimborsi fiscali potrebbero essere disattivati o riorientati. E non è solo teoria: nel febbraio 2025, un’ondata anomala di prelievi da parte di enti beneficiari di fondi pubblici fa emergere il sospetto che ci sia già stato un intervento. È stato proprio questo a far esplodere il primo grande scandalo. Diciannove procuratori generali democratici hanno fatto causa all’amministrazione, sostenendo che il Doge stesse accedendo illegalmente a dati riservati dei cittadini americani.
Un giudice federale ha ordinato allora la sospensione immediata delle attività e la cancellazione dei dati. Musk ha reagito con la consueta aggressività, definendo il giudice «un attivista travestito da magistrato» e chiedendone pubblicamente l’impeachment. Ma i problemi non sono solo legali. C’è una questione più ampia di conflitti d’interesse. Musk è direttamente coinvolto in aziende che ricevono fondi e contratti dal governo federale: SpaceX per la Difesa e la Nasa, Tesla per i sussidi ambientali, Starlink per le telecomunicazioni.
Può un uomo in quella posizione agire con imparzialità? La senatrice democratica Elizabeth Warren ha definito il suo incarico «l’equivalente di un’autorizzazione alla corruzione sistemica». Il nodo cruciale è che Elon non agisce come un politico tradizionale perché, semplicemente, non lo è. Non risponde a un partito, a un elettorato o a una burocrazia, ma solo a se stesso e al pubblico che lo segue su X. E proprio lì, su quella piattaforma che controlla direttamente, vengono pubblicate decisioni di governo, comunicati, provocazioni, attacchi personali. Sul suo profilo, Elon rilancia teorie cospirative sulla Usaid come longa manus dell’ideologia woke. In pubblico, parla dell’Agenzia come di un ente «criminale». Un po’ come se lo Stato si fosse fuso con il suo account personale.
In molti, osservando il suo stile, richiamano la figura dell’uomo forte, del Ceo-dittatore. Ma per Alec Ross, c’è qualcosa di più profondo. Musk incarna, a suo avviso, una combinazione pericolosa: un’intelligenza eccezionale priva di empatia, caratteristica tipica di chi, come l’imprenditore, è affetto da Sindrome di Asperger. «È un genio, ma non è saggio», dice. «È un bravissimo ingegnere, ma quando mette le sue mani sul governo, diventa distruttivo. Non distingue tra un’azienda e una democrazia. Crede di essere un umano con capacità speciali, che ci sia qualcosa di eccezionale nel suo Dna. Vuole essere una figura storica». Questa distruzione creativa, che nel mondo tech è vista come virtù, nel contesto statale diventa tragedia. Quando il Doge ha tagliato i fondi alla Usaid, centinaia di migliaia di persone nei Paesi in via di sviluppo hanno perso l’accesso alle cure mediche. Quando si parla di licenziare i funzionari dell’Istruzione, si mette a rischio la già fragile equità del sistema educativo americano.