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Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo è cambiato il mondo, anche per le 2600 persone senza fissa dimora di Milano e la rete di associazioni che le supportano.

«A Milano non si era mai vista la fame», racconta Alice Giannitrapani, responsabile dei volontari della Fondazione Progetto Arca. «All’inizio dell’emergenza era frequente incontrare persone che non mangiavano da quattro giorni». Poi Milano ha risposto: la città è da tempo un modello nella gestione e nel sostegno alle persone senza dimora ed è un’esperienza che tornerà utile, nel medio e lungo termine, che saranno durissimi.

Unità di strada Progetto Arca marzo 2020

 

In Italia ci sono 50mila senzatetto

«Le persone che sono sulla soglia di povertà cadranno verso il basso e ce le ritroveremo in strada», mi spiega Alberto Sinigallia, presidente di Progetto Arca. «Prevediamo il raddoppio dei senza dimora nel giro di due anni». In Italia oggi sono 50mila, dei 2600 di Milano circa 300 (ma il numero varia molto) dormono direttamente in strada. Non trovano posto nei rifugi perché non ci vogliono stare, perché hanno il cane o perché hanno dipendenze. Quaranta giorni fa Progetto Arca, come le altre associazioni di Milano, ha dovuto cambiare modo di pensare, di lavorare, di intervenire. Quando salta la rete di prossimità, che include non solo mense e docce ma anche i bar e i piccoli alimentari, chi è senza una casa non sa nemmeno dove andare in bagno.

Progetto Arca insieme al Comune ha provveduto all’installazione di una serie di WC chimici in punti strategici. E poi ha distribuito shampoo secco, salviette, disinfettante, mascherine, guanti e soprattutto cibo. La rete delle mense è stata pesantemente colpita dall’emergenza, molte hanno chiuso, ma grazie al Banco Alimentare è partita la distribuzione di pasti caldi per cena, colazione e pranzo.

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Il sacchetto d’asporto al posto della mensa

Il mondo è cambiato, le mense dell’Opera di San Francesco  non si sono fermate. Hanno dovuto chiudere le porte, per le norme sull’assembramento, ma hanno lasciato aperto uno spioncino. Il servizio al tavolo è stato convertito in un sacchetto da asporto, quello delle docce ridotto al minimo, quello guardaroba sospeso. È rimasto aperto il Poliambulatorio, che segue tutti quelli che non hanno diritto al Servizio sanitario nazionale: chi non ha il permesso di soggiorno, chi ce l’ha scaduto, chi è appena arrivato, chi non ha la tessera sanitaria, riempiendo i buchi lasciati aperti dalla burocrazia sanitaria. «L’impossibilità di accogliere gli ospiti a tavola è un cambiamento radicale per noi», spiega Fra Marcello Longhi, il presidente. «Un conto è mangiare seduti, un altro è cercare un muretto o una panchina, sotto gli sguardi ostili dei pochi passanti mentre scoli a terra l’olio del tonno».

 

Sono dettagli nel disegno generale delle cose, perché la verità è che Milano, secondo Fra Marcello, ha risposto come doveva. «Abbiamo perso molti volontari over 65, per loro era troppo rischioso, ma ne abbiamo trovati tanti di nuovi, che ci hanno permesso di non chiudere mai. Milano ha risposto in modo umanissimo, nonostante i suoi gravi problemi strutturali. Ci siamo accorti che non serve avere un’economia stellare, se si destrutturano gli strumenti di cura per la gente. La città ha bisogno di essere guarita. Penso che nella sua banalità naturale, il virus avrà un effetto pari a quello della rivoluzione francese o industriale».

 

L’importanza del contatto emotivo

I volontari e gli operatori che coprono i quartieri di Milano non svolgono solo un lavoro pratico (portare cibo e coperte, fare monitoraggio sanitario, segnalare problemi) ma anche emotivo: contatto, vicinanza umana. «Tutto questo col Covid si è perso», spiega Marco Tozzi, co-coordinatore servizio unità di strada di Croce Rossa Milano. In città la Croce Rossa svolge un lavoro fondamentale, potenziato durato l’emergenza. Le 19 uscite settimanali sono diventate 24, perché alcune associazioni hanno dovuto rinunciare ai turni per mancanza di volontari e loro sono intervenuti per coprire. «Le persone in strada hanno paura del virus, ma anche hanno paura degli ospedali, è raro che una persona senza fissa dimora abbia avuto esperienze positive». Per questo motivo, Croce Rossa ha rafforzato lo screening sanitario e la presenza dei medici. Le persone che dormono in strada o nelle stazioni sono gli irriducibili, che spesso non sono mai volute entrare nei centri, per via del cane, o delle dipendenze, o della resistenza caratteriale alla cosa. «Per ora è andata bene, ma se il virus inizia a diffondersi tra chi dorme sul marciapiede, ci troveremo di fronte a un processo da inventare per tutelare e proteggere gli altri. Col Comune di Milano stiamo cercando tirare fuori delle idee, perché non c’è uno storico né un background, nel caso l’emergenza dovesse dilagare lì».

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“Io vorrei restare a casa”

«Le impugneremo e le faremo archiviare tutte». Antonio Mumolo è il presidente di Avvocato di Strada, un’associazione che dal 2001 offre assistenza legale e gratuita alle persone senza casa. Durante questa emergenza è un pezzo importante nella filiera del supporto ai senza dimora, che in queste settimane hanno dovuto affrontare un problema bizzarro e quasi crudele: le multe fatte per violazione all’obbligo di stare in casa a chi una casa non ce l’ha. Secondo Mumolo, basterebbe una circolare a prefetti e sindaci per risolvere questa anomalia, che continua a verificarsi in tutta Italia (a Milano meno che altrove, però).

Oltre a un appello su questo argomento (Slogan: Io vorrei restare a casa), Avvocato di strada ha diffuso un vademecum per aiutare le persone a districarsi tra le questioni legali del periodo e una piccola guida tascabile (su Milano e Bologna) con gli orari di servizio di mense, docce e sportelli al tempo di questa epidemia.

 

La consulenza di Emergency

Un altro pezzo della filiera è Emergency. Col Progetto Italia  da oltre dieci anni, l’ONG milanese non opera solo nei paesi in guerra, ma anche nel nostro paese. Durante questa crisi è in prima linea su diversi fronti, compreso quello strettamente sanitario di Bergamo. La linea di intervento più vicina ai senza dimora è stata su 49 centri di accoglienza, che lo staff di Emergency ha visitato con team misti di sanitario e logista per renderli adatti alle nuove esigenze igieniche. Come per l’ospedale di Bergamo, anche nei centri milanesi è stata messa a frutto l’esperienza conquistata sul campo grazie a Ebola in Africa (ne abbiamo parlato qui). Le strutture sono state compartimentate, è stata rivista la disposizione dei letti, i flussi di sporco e pulito, i sistemi di pulizia e contenimento, il modo di gestire i pasti. Tutto per ridurre al minimo il rischio contagi e contaminazioni.

Uno dei centri che hanno ricevuto la consulenza di Emergency è quello gestito da Senza Margini. «Ci hanno detto che abbiamo ottenuto la valutazione migliore», racconta con orgoglio Federico Gallo, co-fondatore di questa associazione che nasce dopo anni di esperienza nella gestione nell’emergenza freddo a Milano. Il centro di Porta Vigentina accoglie quaranta persone e come altri ha subito l’onda dello shock da inizio epidemia: mancanza di volontari, ricerca delle mascherine, adattamento alle nuove norme. Tutto è cambiato dalla sera alla mattina. Oggi gli ospiti non possono uscire, ma è una regola comune con quasi tutti i dormitori: chi va fuori oggi perde il letto. «Sono collaborativi e consapevoli», spiega Gallo, «Il problema sono le notizie che arrivano dall’esterno, spesso errate. Ci chiedono di uscire per prendere i soldi dell’INPS. In questo momento avremmo bisogno della consulenza di un patronato per rispondere alle loro domande». In attesa di questo aiuto, ogni sera due medici volontari – tra cui un infettivologo – visitano e misurano la febbre. «Milano ha risposto bene, quando abbiamo iniziato a perdere volontari, abbiamo chiesto una mano, e abbiamo ricevuto un’enorme disponibilità. Hanno chiamato parenti e amici pur di trovare qualcuno che desse una mano».

 

Vittorino Riva è il coordinatore di SOS Milano, un’associazione che fa i suoi giri nella zona nord della città. Anche loro si sono trovati spiazzati all’inizio del lockdown: mancavano i dispositivi di protezione e i volontari. Sono riusciti a saltare solo un turno (SOS Milano esce due sere a settimana) prima di calarsi nella nuova realtà e imparare a navigarla. «Prima, l’obiettivo di ogni contatto era convincere le persone in strada a entrare nelle strutture, ora non possiamo farlo più, perché i dormitori sono pieni. Quindi li monitoriamo, li confortiamo, gli portiamo da mangiare. È una rincorsa continua ad avere i viveri, spesso ci autotassiamo per riempire quei sacchetti». E poi c’è il problema della barriera linguistica, tra loro e le persone che non parlano italiano, dettaglio che durante una pandemia rende le cose molto difficili. «Ce ne sono alcuni che intuiscono che qualcosa sta succedendo – dalle mascherine, dalle strade vuote – ma non ne hanno piena consapevolezza, non capiscono il pericolo, non sanno niente delle procedure. È un rischio enorme».