Netflix, Amazon Web Services (Aws) e Cloudflare hanno presentato separatamente ricorsi al Tar del Lazio contro la delibera con cui l’Agcom, lo scorso agosto, ha deciso di estendere anche alle compagnie che possiedono, gestiscono o controllano un content delivery network l’obbligo di autorizzazione generale, che in base al Codice delle comunicazioni elettroniche grava su tutte le telco. In questo modo, secondo i denuncianti che hanno commentato l’accaduto al Sole 24 Ore, Agcom finisce per equiparare le reti che trasportano dati su fibra alle infrastrutture private su cui viaggiano film e serie delle piattaforme streaming.
Che cosa contestano Amazon e Netflix?
Per Amazon Web Services si tratta di un errore giuridico e di una idea di politica industriale controproducente. «Abbiamo fatto ricorso contro una decisione che di fatto regola le Cdn (ndr ovvero le reti di distribuzione dei contenuti via internet che alimentano lo streaming video, il cloud computing e più in generale buona parte dell’esperienza digitale quotidiana) e aziende come Netflix come se fossero un servizio di telecomunicazione. Non ci sono basi giuridiche a supporto ed è contraria al diritto europeo e italiano», sottolinea la società che osserva: «Le Cdn sono fondamentalmente diverse dalle reti di comunicazione elettronica. Si tratta di un nuovo tentativo di introdurre un quadro normativo che imponga tasse di rete», con l’effetto per le imprese che usano Cdn pubbliche di «sostenere costi più elevati, subire un peggioramento della qualità del servizio, o entrambi». Aws conferma l’impegno a collaborare con le autorità italiane «per garantire un quadro regolatorio che sostenga l’innovazione» ma mantenendo la competitività.
La posizione dell’Agcom
L’Agcom sostiene, invece, che le Cdn siano a tutti gli effetti reti che trasmettono segnali, e, quindi, che debbano essere soggette all’autorizzazione prevista dal Codice delle comunicazioni elettroniche.
La decisione è stata presa anche sulla base del caso che nel 2021 coinvolse Dazn, quando l’Authority intervenne dopo i disservizi nelle prime giornate di Serie A. Ma per Netflix il paragone non regge, o comunque non ha niente a che vedere con la propria posizione.
Oltre alla questione legale, la società denuncia i rischi economici: «Costringere chi gestisce Cdn a una licenza da operatore di telecomunicazioni significa scoraggiare gli investimenti in Italia potrebbe avere come conseguenza quella di portare i server altrove». Con l’effetto paradossale che «i dati viaggerebbero più lontano, le connessioni diventerebbero più lente e la rete più congestionata. In breve, un internet peggiore».
Le paure di Netflix
Netflix teme una sorta di “effetto collaterale” con l’apertura alla tanto temuta “network fee” – la tassa sulle reti che le telco europee invocano da anni e che Bruxelles ha finora respinto per tutelare la neutralità della rete. «Siamo un servizio di intrattenimento in streaming e il nostro obiettivo è quello di soddisfare i nostri abbonati con i film e le serie che amano. Non siamo un’azienda di telecomunicazioni, quindi non ha senso regolarci come tale. Anzi, aggiungere ulteriori norme rallenterebbe l’innovazione e danneggerebbe l’intero ecosistema dell’intrattenimento», commenta Thomas Volmer, director Content delivery policy a Netflix.
L’Agcom già in estate aveva rispedito l’accusa al mittente, precisando che la delibera non rappresenta una riproposizione del dibattito sul fair share, ma solo l’eventuale possibilità di arbitrati tecnici tra le parti in caso di controversie.


