Ha davvero girato mezzo mondo: prima a Londra, poi in America, poi di nuovo in Inghilterra. Alla fine è tornata a casa, in Italia, anche se non proprio a due passi dal suo paese natale. Quella di Elena Noseda è la storia di una grande donna appassionata, talentuosa, che si rende conto, a un certo punto della sua vita, di essere neurodivergente. Una scoperta che per Elena rappresenta il suo superpotere, quasi come se fosse una lente attraverso cui guardare il mondo da una prospettiva diversa. E probabilmente, anche grazie a questo superpotere, a un certo punto sceglie di cambiare strada. Oggi insegna a giocare: ai più piccoli ma non solo, e si occupa di inserire le donne e le minoranze nel mondo del lavoro.

48 anni, romana di famiglia comasca con un passato nel mondo dell’hotellerie del lusso, oggi Elena Noseda con la sua famiglia si è trasferita a Trento, dove porta avanti il suo progetto iniziato a Londra, Biophilia Project, accompagnando grandi e piccini alla scoperta della natura e dell’apprendimento. A lei è dedicata la nuova puntata di Unstoppable Women.
Elena, quando hai scoperto di essere neurodivergente e quale è stata la tua reazione?
Sono venuta a conoscenza di questa condizione l’anno scorso. In particolare, ho un disturbo da deficit di attenzione e iperattività laddove l’ambiente circostante non sia per me inclusivo, altrimenti è una condizione che va a braccetto con l’autismo, la dislessia. Quando l’ho scoperto non l’ho vista come una cosa negativa, anzi, sono convinta che sia il mio superpotere. Per me è come avere una lente attraverso la quale vedo il mondo con una sensibilità amplificata. Questa condizione mi permette di percepire le ingiustizie e le insicurezze e di intervenire facendo impatto sociale. Proprio qualche giorno fa mi è capitato di leggere una pubblicazione di Greta Thunberg dove affermava che vede le cose nere o bianche, senza vie di mezzo, ed è proprio questa percezione a spingerla a voler risolvere i problemi.
Un passato nel settore dell’hotellerie del lusso, oggi fai tutt’altro, che cosa è successo?
Si, ho iniziato a lavorare in hotel di lusso a Londra, ma non ho mai sentito di appartenere a quel tipo di mondo. Mi ero resa conto di avere un’inclinazione per il settore dell’educazione e dell’inclusione, così ho pensato che sarebbe stato bello garantire quello che secondo me è un diritto fondamentale dei bambini: il gioco. Quando sono arrivata a Londra in pianta stabile era il 2010, anche se già c’ero stata prima ma poi ero rientrata in Italia. Allora però, è cambiato un po’ il mio itinerario di viaggio perché sono diventata mamma e non avendo la famiglia vicino volevo, comunque, dedicare a mia figlia il tempo giusto. Così ho messo da parte il mio lavoro dell’epoca, che poi era andato verso il campo della comunicazione, per scoprire il magico mondo dell’educazione che mi ha affascinata al punto tale da intraprendere un viaggio che ancora oggi percorro.

Dopo Londra, è arrivata l’America…
Si, nel 2014 mi trovavo in California, a San Francisco, dove ho avuto il mio primo contatto con alcune realtà educative. Ho scoperto la pedagogia montessoriana, poi sono tornata in Inghilterra e ho iniziato a lavorare di più in modo concreto. Lì ho avuto l’opportunità di conoscere un’insegnante che ha creato un ponte tra educazione e natura, la fondatrice di Nature Play, un movimento importante nella realtà londinese perché nella Londra Sud crea opportunità di incontro per famiglie e bambini in natura, accompagnando il gioco spontaneo. E lì che l’uomo ritrova la sua origine e così, assieme a lei (ndr la founder di Nature Play, Clare Caro), ho iniziato questo viaggio.
Al centro di tutto c’è il gioco, in che senso?
Come anticipato, i bambini dovrebbero avere il diritto al gioco ma non sempre questo, invece, è garantito. Non gli si dà la giusta importanza, invece è un aspetto fondamentale non solo nei bambini ma anche negli adulti. Ho intrapreso questo percorso proprio per provare a convincere le scuole dell’importanza di far giocare i più piccoli e di educarli attraverso il gioco. Con questa modalità di apprendimento noi ci siamo evoluti come genere umano.
Oggi sei una Forest School Leader, che cosa significa esattamente?
Il Forest School Leader è un insegnante che, appunto, favorisce il rapporto tra gli studenti e la natura. In particolare, spinta da questa forte motivazione, ho dato vita a Biophilia Project, un progetto che ha le sue radici nell’ecologia e che enfatizza il valore intrinseco del mondo naturale e la nostra interconnessione con questo. Il mio lavoro stesso è influenzato dall’interesse per la psicologia ambientale, che riconosce quanto profondamente i nostri dintorni intacchino il benessere mentale ed emotivo. Integro attivamente pratiche come il “round speak” (parlare a turno/in cerchio), la comunicazione compassionevole e non violenta, creando spazi che promuovono i diritti individuali e l’autonomia. Questo impegno mi permette di incentivare ambienti inclusivi. Si tratta di un approccio olistico allo sviluppo infantile che rispetta la nostra profonda connessione con il mondo naturale e tra di noi. Ho lavorato anche con le scuole primarie e proprio in questo contesto, dall’osservazione di quel mondo che sino ad allora non conoscevo, ha preso vita Biophilia Project: dopo 2 anni in una scuola primaria. Ora sto scrivendo un libro sul progetto.

Qual è il feedback che hai ricevuto?
Per due anni ho raccolto feedback, in particolare da parte dei genitori dei bambini a cui insegno, e ne sono rimasta molto soddisfatta: alcuni mi hanno rivelato che in questo modo si sono risolti anche casi di bullismo e gran parte degli stereotipi sono caduti. Poi ho anche lavorato con altre scuole, in realtà importanti nel sud di Londra, immersa in una riserva naturale dove si dà spazio a un progetto che accoglie famiglie che fanno educazione parentale. L’Inghilterra è molto più libera da questo punto di vista rispetto all’Italia. Là non ci sono esami di fine anno e le famiglie vengono supervisionate.
Io sono facilitatrice del progetto e sono approdata in un collettivo di 4 donne in cui lavoriamo per aiutare, appunto, donne e minoranze a inserirsi nel mondo del lavoro laddove riscontrino particolari difficoltà. Inoltre, recentemente abbiamo allargato l’iniziativa anche a bambini con bisogni speciali come me. In Italia la Forest school c’è, ma siamo un po’ indietro e non è così integrata come in Inghilterra. Inoltre, assieme a un altro collettivo di genitori, porto avanti il progetto “smartphone free childhood” per l’Italia. Siamo in circa 500 membri e sta crescendo ogni giorno di più, calcolando che non abbiamo ancora strumenti di comunicazione molto attivi, il passaparola sta funzionando tanto. Non si tratta di un movimento estremista contro la tecnologia, ma a favore dell’infanzia e di quei momenti importanti che si hanno da bambini per creare connessioni e passare il tempo senza stare su schermi e cellulare. Questo è il primo passo per portare i ragazzi in Italia a una realtà più concreta. Sono rimasta sbalordita da quanto manchi ancora questa consapevolezza.
Perchè hai deciso di tornare in Italia?
Devo dire che la Brexit non ci ha aiutato, è stato un cambiamento neanche troppo lento di standard di vita ed è diventato tutto più faticoso. La mia prima figlia è nata a Londra, la seconda a San Francisco, ora viviamo a Trento ma chi sa se ci sposteremo di nuovo. Da questo punto di vista siamo proprio degli “Unstoppable”.