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Il basket non solo come attività sportiva, ma come motore di sviluppo umano e comunitario, perché lo sport non si limita alla competizione, ma è un mezzo per diffondere cultura, valori e competenze, offrendo opportunità di crescita anche nei contesti più difficili. Tutto nasce da un’amicizia: quella tra Bruno Cerella e Tommaso Marino, due cestisti che nel 2011 decidono di condividere la comune passione per il basket con la voglia di fare la differenza, attraverso un’esperienza culturale capace di lasciare il segno. E così danno vita a “Slums Dunk”, un’associazione senza scopo di lucro che, attraverso il linguaggio universale dello sport, si è data l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita dei e delle giovani che vivono in aree del mondo economicamente e socialmente degradate. Da qui anche il nome, che nasce da un gioco di parole tra “Slam Dunk” (schiacciata nel gergo della pallacanestro) e “Slums” (baraccopoli): un progetto che crea accademie di basket nei contesti più svantaggiati del mondo, ma anche sul territorio italiano.

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Educazione scolastica e sportiva: per non lasciare nessuno indietro

Quest’avventura parte dal Kenya, e in particolare dalla baraccopoli di Mathare, alla periferia di Nairobi, dove vivono oltre 500.000 persone e dove non ci sono grandi opportunità di svago e di sport per i giovani che, anzi, sono spesso vittime della criminalità: una realtà fatta di povertà estrema, ma anche di sorrisi autentici e di giovani che, nonostante tutto, cercavano di costruire qualcosa di bello. Bruno e Tommaso trovano partner locali già impegnati in progetti di salute e istruzione, desiderosi di integrare anche lo sport nei loro programmi, e danno vita al primo campo di Slums Dunk: “Non solo partite di basket, ma la consapevolezza che lo sport può diventare uno strumento educativo, una palestra di valori, un’alternativa concreta in contesti dove si sopravvive anche con un solo euro al giorno”, racconta Bruno Cerella a Startupitalia. “Per noi è un modo per affiancare l’educazione scolastica a quella sportiva ed educativa, portando il basket dove non ci sono possibilità. Non un intervento una tantum, ma progetti sostenibili nel tempo, con accademie di attive tutto l’anno”.

Sport come strumento di crescita personale

Slums Dunk, in 14 anni, è cresciuta e si è diffusa in quattro continenti, con iniziative in Kenya, Zambia, Argentina, Cambogia e anche in Italia. In Cambogia, per esempio, l’associazione collabora con realtà che offrono alimentazione ai bambini e alle bambine di strada, abbinando sport e crescita personale attraverso educatori capaci non solo tecnicamente, ma anche umanamente, di costruire validi percorsi di crescita. All’interno delle Basketball Academy vengono recuperati spazi abbandonati o trascurati, trasformandoli in campi da gioco aperti alla comunità, in modo da poter coinvolgere attivamente bambine e bambini provenienti dai contesti più vulnerabili. Senza retorica. “I numeri parlano chiaro: migliaia di ragazzi coinvolti, 125 borse di studio ottenute grazie allo sport, un’alternativa reale a strade fatte di droga, criminalità e prostituzione”, sottolinea Cerella.

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Il “ritorno” in Italia con la riqualificazione degli spazi urbani

Durante la pandemia, data l’impossibilità di viaggiare, Slums Dunk ha trovato nuova linfa anche in Italia, partendo da Viale Stelvio a Milano fino a Legnano, dove è nato PlayGround Project: riqualificazione di spazi urbani, coinvolgimento di scuole, oratori, centri diurni, squadre locali, con un’attenzione particolare anche alla disabilità fisica e mentale. “Oggi l’Italia non è solo un territorio di raccolta fondi, ma anche di progettualità sociale: veri e propri community hub, spazi aperti dove sostenitori e cittadini si incontrano, socializzano e costruiscono nuove opportunità. La cosa più bella è vedere una comunità che si sente parte del progetto”.

Una comunità attiva

Oggi Slums Dunk è molto più di una semplice associazione: è una comunità che crede nello sport come strumento di empowerment, un ponte tra sogni e possibilità concrete. Ma qual è la sua forza? “Non una grande azienda dietro le quinte, ma una community vera, fatta di oltre 200.000 persone che credono nel progetto e che, anche solo donando un euro, contribuiscono a mantenere viva l’associazione. Solo tre persone sono stipendiate: il resto è tempo donato, passione pura. Per me e Tommaso Marino la cosa più bella è vedere una comunità che si sente parte del progetto. Dare indietro allo sport tutto quello che ci ha dato, in modo concreto, è il nostro modo di restituire al mondo un po’ della fortuna che abbiamo avuto”.