Maggio è riconosciuto a livello internazionale come mese del benessere mentale: un’occasione per sensibilizzare e per promuovere, attraverso campagne, incontri e attività di sensibilizzazione, l’importanza di prendersi cura della propria salute psicologica e di chiedere aiuto quando necessario.
Di strada ce n’è ancora tanta da fare: spesso, anche quando c’è consapevolezza, si ha vergogna ad ammettere di avere un problema di questo tipo, che viene considerato ancora un tabù da gran parte della società.
Ma una nota positiva c’è: stanno aumentando le persone più giovani che non hanno più paura di parlarne, anche grazie a percorsi mirati di psicoterapia e supporto.
I disturbi del comportamento alimentare (DCA)
Tra i disturbi più diffusi ci sono tutti quelli legati al rapporto con il cibo, in primis anoressia e bulimia, ma anche ortoressia, vigoressia, diabulimia, binge eating disorder. Secondo i dati del Ministero della Salute, si stima che oggi più di tre milioni di italiani, ovvero oltre il 5% della popolazione, soffrano di disturbi della nutrizione e dell’alimentazione (DNA), comunemente noti come Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). In particolare, soffrono di anoressia o bulimia (Dati Osservatorio ABA e ISTAT) ben l’8-10% delle ragazze e lo 0,5-1% dei ragazzi, con un’età sempre più bassa, a partire dai 10 anni.
Allo stesso tempo i DNA sono tra i disturbi più difficili da comprendere, soprattutto per chi li osserva da fuori, anche per colpa di una narrazione stereotipata da parte dei mass media, incentrata sul mero sintomo alimentare, illustrato con foto di foglie di lattuga nel piatto, bilancia per controllare il peso, metro da sarta per misurare il giro vita.
A dispetto di ciò che il nome potrebbe far pensare, il cibo e l’aspetto fisico non rappresentano il fulcro della problematica, ma sono solamente modalità di esternare un dolore più profondo, che deriva da fragilità, insicurezze e sofferenze personali.
“Non è il cibo il mio disturbo alimentare”
“Il rapporto con il cibo è solo il modo di esprimere un problema più grande, è una risposta alla difficoltà quotidiana di abitare il mondo, che tante persone si trovano a dover affrontare”: questo è il messaggio che dal 2021 l’associazione Animenta cerca di trasmettere con il suo operato, come spiega la founder Aurora Caporossi, che è anche CEO del centro clinico “Comestai” e dello spazio di formazione e consulenza “La palestra di Animenta”.
“Non è il cibo il mio disturbo alimentare” è invece il titolo della campagna di sensibilizzazione sul tema: i DCA non vanno curati a tavola, ma è necessario ripartire ponendo al centro dell’attenzione la persona e i suoi sentimenti.
Le attività dell’associazione Animenta
Animenta ha sede a Roma, ma, grazie alle attività online e ai volontari, è attiva in tutta Italia. L’obiettivo principale dell’associazione è raccontare, informare e sensibilizzare la società, proponendo incontri, eventi e webinar, ma anche offrire supporto alle persone che stanno affrontando un disturbo alimentare e alle loro famiglie, attraverso gruppi di auto-mutuo-aiuto e supporto psicologico online. Inoltre realizza progetti per accompagnare le persone più giovani e le famiglie nel percorso di riabilitazione attraverso laboratori di cucina o di scrittura, aperitivi e altri momenti di socialità, gruppi di ascolto e tanti progetti per chi vuole riscoprire sé stesso o sé stessa oltre la malattia. “I social media sono il nostro principale canale di comunicazione, in particolare Instagram: da qui nasce a maggior ragione l’urgenza di riscrivere la narrazione intorno ai disturbi alimentari, facendo capire quanto siano l’espressione di un disagio più profondo che risiede nell’invisibile e nel vissuto di ogni persona”.
Quando la felicità è una performance
“I disturbi alimentari possono nascere da diverse cause, ma ad accomunarli c’è quel senso d’identità che sembra scivolare via, a cui si reagisce cercando di avere il controllo del cibo e del proprio peso: effettivamente il cervello di fronte a una restrizione calorica si attiva e genera una sensazione energetica iniziale, che dà sollievo”, spiega Stefano Erzegovesi, medico psichiatra e nutrizionista specializzato in DCA, ospite in uno degli incontri sul tema organizzato dal Gruppo Mediobanca nell’ambito dell’iniziativa #TakeCare, con l’obiettivo di amplificare la consapevolezza di sé e la cura del proprio benessere. “Di fronte al dolore di chi soffre è importante far sentire la propria vicinanza, che deve essere calda, ma discreta, non invadente, anche da parte dei genitori. Bisogna avere pazienza e non mollare mai”.

“Viviamo in una società che mette al primo posto la felicità e ce ne fa sentire responsabili, come fosse una performance”, aggiunge lo scrittore Matteo Bussola. “Si crede che l’amore si leghi al soddisfacimento delle aspettative altrui, ma l’idea che queste vengano tradite genera ansia, mentre ci vorrebbe un’educazione al fallimento. Inoltre, il controllo che oggi si può esercitare sulle persone attraverso la tecnologia, per esempio nel rapporto tra genitori e figli, impedisce ai ragazzi e alle ragazze di dire le bugie, che in realtà sono un passaggio sano e necessario per crescere. Il corpo, allora, rimane per loro l’ultimo aspetto su cui sembra di poter esercitare il proprio controllo”.
Il percorso #TakeCare del Gruppo Mediobanca
Non solo l’incontro con un focus sui disturbi del comportamento alimentare. Sono numerose le iniziative del Gruppo Mediobanca dedicate alla popolazione aziendale: uno sportello psicologico, lo psicologo online, webinar e incontri dedicati, supporto alla genitorialità e alla salute. Iniziative che rientrano nel percorso #TakeCare del Gruppo, nato con l’obiettivo di tutelare il benessere fisico e psicologico delle persone dipendenti e che rientra nel progetto più ampio toDEI, che dal 2022 mira a promuovere Diversità, Equità e Inclusione in azienda.
Il vero senso del benessere mentale
Nel mese dedicato al benessere mentale è quindi importante ricordare che i disturbi del comportamento alimentare, così come molte altre fragilità psicologiche, sono spesso invisibili e, proprio per questo, faticano ancora oggi a essere riconosciute, raccontate e affrontate nel modo corretto.
La lotta non può limitarsi al solo ambito clinico: deve trasformarsi in una sfida culturale e sociale che coinvolga scuola, famiglia, media e mondo del lavoro, rendendo l’intera società partecipe e consapevole. Solo così sarà possibile un vero cambiamento di prospettiva, che metta al centro la persona e il suo benessere.