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Il lavoro è protagonista del nuovo spettacolo de “I figli di Estia”, la compagnia teatrale dell’associazione culturale PrisonArt, nata all’interno del carcere milanese di Bollate per desiderio di un gruppo di persone detenute che avevano lavorato con Michelina Capato, scomparsa nel 2021. Un progetto che rende omaggio alla regista e coreografa che, con la sua cooperativa Estia, aveva portato la recitazione nelle carceri come forma di rieducazione.  

“E tu, che lavoro sei?”: uno spettacolo corale

A portare in scena lo spettacolo “E tu, che lavoro sei?” sono persone detenute, sia gli attori sia i tecnici. La regista, Lorenza Cervara, è partita da domande rivolte a tutti: cosa sognavi da bambino, cosa ci piacerebbe fare, come il lavoro è cambiato e come ha cambiato la società, cos’è il lavoro oggi. Domande universali, che hanno portato a realizzare una drammaturgia collettiva che induce a riflettere anche il pubblico. «Lo spettacolo è corale, con dieci persone in scena. Ho chiesto ai ragazzi di scrivere qualcosa che riguardi il lavoro. Sono emersi scritti molto diversi tra loro: alcuni sono stati messi in dialogo, anche se arrivavano da due persone differenti». 

L’attualità del lavoro oggi

E tu, che lavoro sei?” è uno spettacolo che affronta tematiche attuali e portatrici di riflessione: la sicurezza sul lavoro, i morti sul luogo di lavoro, il caporalato, il lavoro in nero, ma anche cos’è il lavoro e cosa rappresenta lavorare in carcere sono solo alcuni dei temi portati in scena, aprendo l’anima al pubblico e del pubblico. 

Il corpo è, come di consueto, fondamentale mezzo di espressione artistica, come sottolinea Lorenza Cervara: «Abbiamo lavorato soprattutto da un punto di vista fisico, perché per me, arrivando dagli studi con Michelina, la parte fondamentale degli spettacoli è il corpo e come lo si utilizza per raccontare». Così, oltre alle parti raccontate con la parola, non mancano i quadri narrati attraverso il corpo.

figli di estia 2024 ph angelo redaelli 2

Anche un omaggio a Charlie Chaplin

Fra le immagini portate in scena, anche un omaggio a Charlie Chaplin, con la fila in fabbrica «dove le persone se ne vanno e restano in pochi a dover fare tutto», ma non solo. Significativo anche il quadro «con le persone che si alzano al mattino, si preparano, vanno a lavorare: una serie di azioni in ripetizione proprio perché rappresenta il fatto che le persone spesso e volentieri lavorano e basta» o ancora «il racconto di una persona che in realtà vorrebbe fare altro, ma il lavoro lo richiama all’ordine» o anche il tema del lavorare per vivere o del vivere per lavorare. 

Un lavoro di crescita

Christian, uno dei detenuti, è il responsabile artistico. Per lui e i compagni questo spettacolo rappresenta una presa di consapevolezza: «Ottimo lavoro dal punto di vista artistico, ma soprattutto umano. Dopo il Covid, avevamo bisogno di dare nuova linfa artistica al gruppo e crescere. Lo stiamo facendo grazie a Lorenza e al presidente di PrisonArt, Stefano Pozzato. Siamo contenti di continuare non perdendo la direzione. Si è visto un lavoro di preparazione e di crescita, abbiamo osato. Un lavoro di gruppo in cui hanno creduto tutti». 

Le riflessioni di un detenuto

Le riflessioni di Christian toccano con mano la realtà e la presa di consapevolezza: «Noi con il lavoro abbiamo sempre avuto un certo tipo di rapporto: non abbiamo mai pagato le tasse, non ci siamo mai interessati al tema della sicurezza. Una volta che sei detenuto, però, esso diventa fondamentale, in quanto permette di usufruire del tempo trascorso all’interno in modo costruttivo». 

Non solo. «Ti rendi conto del fatto che il lavoro è un mezzo per uscire, poiché difficilmente concedono le pene alternative se non c’è una professione, ma ci si rende conto anche delle fatiche, perché capisci che guadagnare soldi facili è diverso che sudarseli. Per questo motivo assumi consapevolezza».

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Le fragilità del lavoro contemporaneo

A emergere, sottolinea Christian, «sono anche tutte le fragilità, le difficoltà e i rischi». La riflessione si sposta anche sul lavoro fuori dal carcere. «Tante persone fanno un mestiere che non vogliono, ma sono costrette a farlo, a trovare una loro dimensione; c’è quasi un parallelismo fra la presa di consapevolezza di queste persone e la nostra, che il lavoro l’abbiamo sempre visto come un optional. Emergono, insomma, le tante schiavitù moderne appartenenti alla società capitalistica».

Il riscontro da parte di spettatori e spettatrici è stato positivo. Spiega Stefano Pozzato: «Mi sono emozionato tantissimo. Ogni persona del pubblico si è rispecchiata in qualche elemento dello spettacolo. Ho visto le persone lasciare emergere i loro sentimenti».

Christian, Stefano e Lorenza e i detenuti rivolgono un pensiero a chi ha contribuito allo spettacolo: «Vogliamo ringraziare le nostre collaboratrici esterne: Sonia, Irene, Carmen, Nicoletta e Gaia. Inoltre, vogliamo citare e ringraziare la nostra responsabile interna, la dottoressa Catia Bianchi, con cui collaboriamo alla realizzazione degli spettacoli e gestione del teatro di concerto con la direzione nella figura del dottor Giorgio Liggeri per gli eventi programmati anche extra teatro».

‘E tu, che lavoro sei?’ nelle scuole

Lo spettacolo sarà ora portato nelle scuole e con probabilità anche nei teatri. «Per noi è motivo di credere sempre in quello che facciamo – conclude Christian -. Se riusciamo a far arrivare quello che vogliamo, vuol dire che abbiamo fatto metà del nostro lavoro. Il teatro è comunicazione, è espressione, è cercare di dire come vediamo il mondo. Se le persone sono interessate, vuol dire che quantomeno abbiamo qualcosa da dire. È importante per noi venire ascoltati e apprezzati per quello che cerchiamo di esprimere».

Immagini: ph Angelo Redaelli