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Femmina come la terra / Femmina come la guerra / Femmina come la pace Femmina come la croce / Femmina come la voce
Femmina come la sorte / Femmina come la morte 

Femmina come la vita / Femmina come l’entrata / Femmina come l’uscita…

Luciano Ligabue, Il giorno dei giorni

Fa eccezione questa lista, nella letteratura canora, per l’uso positivo della parola “femmina”. 

Molto più usata “donna”, sia in italiano (Donne, Quello che le donne non dicono… ) sia in inglese (Just like a woman, You make me feel like a natural woman…).

Il concetto di “femmina”, almeno nella musica, pare abbia ispirato emozioni per lo più negative.

Si avisse fatto a n’ato / chello ch’hê fatto a me / st’ommo t’avesse acciso…

Così scrive Totò nella sua Malafemmena, che piange la sofferenza causata dall’infedeltà dell’amata, tra sfumature contrastanti – te voglio bene e t’odio – insulti – Si’ tu peggio ‘e na vipera – residui di corteggiamento – Si’ doce comm’o zzuccaro – e la condanna definitiva – Peró ‘sta faccia d’angelo te serve pe’ ‘nganná. Con anatema finale: Ma Dio nun t’o pperdona chello ch’hê fatto a me.

Le tinte fosche degli etimi

È avvolta nel mistero l’etimologia di femmina. 

Pare riconducibile a due origini sanscrite, entrambe legate al tema della fecondità. Che sia la radice dha – grecotha, latino fa -a rimandare all’idea di allattare; o la radice bhu – il greco füo, da cui füsis, la natura – che ispira il produrre, il generare, il far crescere, fatto sta che nel latino foemina c’è  colei che genera, allatta, nutre.

Eccola lì, la funzione prioritaria: la maternità.

Altre funzioni ritrovabili in mulier, la donna più comune (spagnolo mujer), che conserva l’origine proletaria nel gesto del mulgere:mungere capre e vacche, nella famiglia latina, era funzione riservata alle donne. 

Tutt’altro valore in donna, forma contratta del latino domina, la signora, la padrona della casa (domus), titolo che spesso ancora oggi nel Sud Italia accompagna il nome della donna di rango. 

Curioso che l’etimo di uxor, moglie, sia rimasto in italiano solo nel contesto più violento, l’uccisione. E per una volta l’estensione del genere va in direzione insolita. Per Treccani, uxoricida è chi uccide la propria moglie, ma anche chi uccide il coniuge, e quindi anche la donna che uccide il marito (e quindi anche la moglie che uccide la propria moglie, il marito che uccide il proprio marito e così via). Insomma pare ci voglian dei morti ammazzati per un guizzo di gender equity.

(Sottovoce: curioso anche che, per una volta, la lingua inglese sembri meno inclusiva della nostra. Woman deriva infatti daltardo-antico inglese wimman,che, teniamoci forte, ècomposto da wif,cioèdonna,e man, cioèuomo. Dunque, woman è “donna-uomo”. Sì, sì, si obietterà, “uomo nel senso di essere umano”, come al solito).

“Femminile”: ok. “Femmina”: mah 

Da tempo vediamo tentativi – a volte ottimi, a volte patetici – di riequilibrare la bilancia, volgendo “al femminile” cose tradizionalmente maschili o comunque affermando quell’identità di pensiero. 

A parte la testata alfemminile (emblematico l’indice delle rubriche: Bellezza, Moda, Genitorialità, Mamme in auto (GIURO!), Amore e psicologia, Oroscopo, Matrimonio, News & gossip, va beh la smetto), c’è la collana delle guide al femminile, lo sport al femminile, la musica al femminile, lo yoga al femminile, il collegio degl’ingegneri al femminile. C’è la medicina al femminile: si chiama femtech l’insieme delle tecnologie per la salute e il benessere femminile, con molte app per il monitoraggio del ciclo mestruale, della fertilità, delle difficoltà della menopausa. 

Ma finché è aggettivo, ok, niente turbamenti. 

È quando il concetto compare come sostantivo, femmina, che sembra assumere un tono spregiativo. È una cosa da femmine. Non fare la femmina. I bambini della mia generazione potevano essere marchiati da frasi del genere. 

(Anche se, a Napoli, il femminiello, il giovane che esibisce tratti femminili o esplicitamente omosessuali, porta buono.) 

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Mica siam tutti figli di buona donna?

Un massaggiatore è un cinesiterapista. Una massaggiatrice?

Un uomo con un passato: un uomo che ha avuto una vita, in qualche caso non particolarmente onesta, ma che vale la pena di raccontare. Una donna con un passato?

Un buon uomo: un uomo probo. Una buona donna?

Un uomo allegro: un buontempone. Una donna allegra?

Un gatto morto: un felino deceduto. Una gattamorta?

Uno zoccolo: una calzatura di campagna. Una zoccola?

Un tipo disponibile; un uomo gentile e premuroso. Una tipa disponibile?

Così un famoso monologo di Paola Cortellesi. Parallelismi che fanno emergere il pensiero discriminatorio spesso sotteso alla lingua italiana. Storture che vengono da lontano.

Pregiudizi trasmessi dall’infanzia, attraverso i personaggi della formazione. Cenerentola e Biancaneve sono sì resilienti, ma sempre graziose, diligenti e remissive. Peter Pan è avventuroso, ingegnoso, temerario. Cappuccetto rosso disobbedisce ma poi la paga, e figurarsi se se la cava da sola. Se poi c’è una coppia mista, Hansel e Gretel, è lui il problem solver. Le donne di potere sono spesso streghe invidiose e cattive. Sì, ci sono anche uomini malvagi, ma poi sono sconfitti dall’eroe saggio e valoroso. La regina, tesoro, spesso era in camera a ricamare.

Femmine da nascondere

Festival di Sanremo 2021 (ben cinque co-conduttrici volteggiano intorno al re): Beatrice Venezi, la più giovane donna a dirigere un’orchestra in Europa, dichiara di voler essere chiamata “direttore”. 

«Per me quello che conta è il talento e la preparazione con cui si svolge un determinato lavoro. Le professioni hanno un nome preciso e nel mio caso è direttore d’orchestra». 

Chissà perché contadina sì, operaia sì, commessa sì, maestra e infermiera sì, e direttrice no. Eh, perché è il ruolo, si dice, come l’avvocato, il medico, è il ruolo che si riveste. Come se fosse il ruolo a richiedere il maschile.

Per carità, ognuno può preferire l’etichetta che sente più adatta, ma attenti a teorizzare: se si nasconde il tratto femminile, si nascondono o si squalificano tanti sacrifici e sforzi della storia.

Ha fatto rumore anche, nella recente turbolenta estate politica, la scelta del Senato di respingere – a scrutinio segreto – l’emendamento di una senatrice che chiedeva di adottare il linguaggio di genere nella comunicazione istituzionale dell’aula. Governo già dimissionario, ok, la mente altrove, ma si chiedeva solo di usare un linguaggio rispettoso e inclusivo nei testi del Regolamento, evitando il maschile standard per funzioni e ruoli. Siamo su problemi come il segretario, il presidente. Niente. 

Verbalizzare una differenza vuol dire riconoscerla; negarla vuol dire costringere le donne a omologarsi a modelli maschili. Il ruolo declinato al maschile non è neutro, è maschile. Nega la differenza. Negare anche un piccolo passo di progresso, in una delle più importanti istituzioni del paese, esprime qualche avvisaglia di una cultura reazionaria e retrograda.

Scusi Dottrice, anzi, Dottora

Lettore, lettrice; pittore, pittrice; traduttore, traduttrice. 

Le parole che finiscono al maschile in -tore terminano in -trice al femminile. Deriva dal latino: le parole in -tor al maschile si tramutavano in -trix al femminile.
Come mai la parola dottore al femminile diventa dottoressa e non dottrice?

Quando ho letto questo brano in un articolo su noidonne ho avuto un piccolo fremito. È vero. Anche attrice, conduttrice, nuotatrice. Persino calciatrice, per la gioia di chi pensa che una donna che parla di calcio non si può sentire, figurarsi giocarlo. 

Piccola indagine personale. Il femminile in -essa ha avuto a volte un’origine ironica o spregiativa. È una filosofessa da quattro soldi, esemplifica Treccani. All’inizio del ’900, quando iniziarono a entrare in una professione maschile, le donne stesse per lo più rifiutavano di esser chiamate dottoresse. Tuttora la maggioranza preferisce il dottore, il medico. Forse neutralizzando il termine sentono difesa l’altezza della categoria.

Piccolo esperimento personale. Da qualche tempo, quando giro per ospedali, azzardo la formula “Scusi, Dottrice”. Nei giorni più spavaldi, persino “Dottora”, sulla scia dell’assessora ormai diffusa, e del semplice signora il cui suffisso -ora non ha mai generato turbamenti. 

La reazione ondeggia tra il distratto (non ho tempo), il benevolo (sarà straniero), l’infastidito (come si permette), ma m’è capitato anche di sentirmi chiedere ragione di quell’appellativo, e allacciare una riflessione (pochi istanti, eh, che non son luoghi per sermoni linguistici). 

Ho gioìto, un giorno, all’ospedale di Biella, leggendo su un volantino in bacheca: 

E se oggi provassimo tutte/tutti con “dottora”? Noi siamo ciò che diciamo e ciò che pensiamo. Esprimiamoci in modo più rispettoso: diffonderemo rispetto.

Ci fossero più epiceni

Si chiama epiceno (dal greco epì, sopra, e koinòs, genere comune) un sostantivo che indica individui di entrambi i sessi con la stessa forma. Si usa per gli animali: gorilla, aquila, pantera, coccodrillo. Ma anche per esseri umani: persona, personaggio, vittima, vedetta, sentinella. 

Mario è una persona, non un persona. Claudia è un personaggio. Piero è una sentinella.

Diversamente da molti sostantivi comuni usati per entrambi i generi, dove però l’attenzione è sull’articolo (il/la dentista), o ancor più sull’apostrofo (un assistente/un’assistente), gli epiceni sono inclusivi per definizione, non contemplano il cambio di genere grammaticale in nessuna direzione, tanto da costringere a volte a precisazioni buffe (gorilla maschio/gorilla femmina) o a ridondanze (la vittima, un uomo di 50 anni). 

Chissà, adottassimo la formula “persona”, per indicare sia Mario sia Claudia sia Piero, chiamassimo “esseri viventi” le persone che sono su questa terra, titolassimo “Dichiarazione dei diritti delle persone” e non dell’uomo, magari daremmo un’accelerata all’inclusione dal linguaggio.

Accelerazioni 

Per accelerare a volte bisogna provocare.

Abbiamo già raccontato qui alcuni episodi recenti che hanno acceso l’attenzione sul linguaggio di genere. 

Il caso dell’università di Lipsia, dove un giorno il rettore decreta che per un mese in tutti i documenti si parli solo al femminile: le docenti, le studenti, le coordinatrici didattiche, intendendo maschi e femmine. 

Il caso di Scrivere donna, una ricerca in cui molte scrittrici analizzano le particolarità del linguaggio femminile, e quello di Caratteri di donna, concorso letterario organizzato da Comune e Università di Pavia, in origine riservato alle donne autrici, ora aperto a chiunque, proprio per superare gli stereotipi.

Altri casi di accelerazione presentano toni ancora più netti. 

A volte c’è la forza del testimonial. 

Nel 2014 Emma Watson lancia all’ONU la campagna HeforShe, che coinvolge gli uomini nella lotta contro la discriminazione femminile. «Ho deciso che ero femminista, ma ‘femminismo’ è diventata una parola impopolare. La parità di genere è un fatto di libertà, che riguarda tutti. Vi invito a farvi avanti, a farvi vedere e a chiedervi: se non io, chi? Se non ora, quando?» 

Altre volte, il problema va reinquadrato. 

Nel libro di Riccarda Zezza e Andrea Vitullo pubblicano il libro MAAM, Maternity As a Master, il messaggio è: la maternità è un master che rende più forti uomini e donne. Spesso vissuta dalle aziende come un peso, è invece un’occasione di crescita, che genera nuove energie e abilità essenziali anche nel lavoro. In pochi mesi il libro diventa un corso di formazione, frequentato all’inizio da donne, ma presto da molti uomini, che ne traggono nuovi paradigmi sul rapporto tra maternità e lavoro, e nuovi modelli di leadership. 

(E speriamo esca presto anche uno studio sull’impatto della paternità negli ambiti professionali.)

Altre volte, c’è un drastico ribaltamento di prospettiva.

Che accadrebbe, per esempio, se solo per un giorno i maschi subissero le conseguenze di una società sessista e violenta governata dalle donne? Lo immagina nel 2010 la regista francese Eléonore Pourriat nel corto Majorité Opprimée. Le donne fanno jogging a petto nudo; il marito casalingo porta il figlio all’asilo mentre la moglie è al lavoro, ricevendo molestie dalle ragazze per strada; un bambinaio musulmano confessa le angherie subite dalla padrona. 

Un ribaltamento dove comunque la violenza e l’oppressione restano protagoniste, e lo schema buoni-cattivi suscita attenzione solo perché invertito, non combattuto o risolto. Ipotesi estrema, non certo da realizzare: da studiare, certo sì. 

Bucce di banana

– È intelligente, per essere una donna

– È una donna con le palle

– Chissà cos’ha fatto quella per lavorare

– Anche lei però, se va in giro vestita così, se la cerca

– Dovresti essere contenta che ti guardano

– Ma cos’hai oggi, hai le tue cose? 

Son passati anni, per fortuna, da quando sentivamo nei bar, ma anche negli uffici, frasi così. 

O no?

Pare di no. 

mangiatrici banane

Si è molto parlato quest’estate della Festa degli uomini, organizzata a Nimis, in Friuli, ormai da 45 anni. Uno degli eventi della festa consiste in una competizione tra donne che mangiano banane, tenute ad altezza cintola e porte loro da una schiera di uomini. Per aumentare la grazia: le concorrenti sono inginocchiate, bendate, mani legate dietro la schiena. Con buona pace di chi pensa che oggettificazione, sessualizzazione, mercificazione del corpo della donna siano paranoie veterofemministe.

«È una goliardata», smussano gli organizzatori, «e fatevela una risata, ogni tanto». 

Confesso, non so se andrei a firmare una petizione per invocare la soppressione dell’evento. Ma mi chiedo se il rituale, condito da simboli fallici, riti propiziatori ed elezione del David più mascolino, sia ciò che occorre oggi per un dignitoso affermarsi della cultura del rispetto e dell’inclusione.

Magari la prossima volta, nella sfilata delle femmine davanti al distributore del caffè, i colleghi maschi potrebbero pensare un attimo in più, prima di parlare o ammiccare. 

Sempre che parlare o ammiccare sia necessario.

(E viceversa, eh, chiaro)