Il mio amico almeno è una bella persona
… non parla mai di odio e sfortuna
anzi dice era peggio non essere nato
non avrei mai potuto vedere la luna
Gianni Morandi, Il mio amico
Prima premessa, una definizione.
Abilismo: «discriminazione e pregiudizio sociale nei confronti delle persone con disabilità.»
Così Treccani.
Possiamo aggiungere il presupporre che tutte le persone abbiano un corpo abile.
Elementi consci, dunque (discriminazione, esclusione, violenza volontaria), ed elementi inconsci (presupposizione, sbrigatività, superficialità). Una visione bilaterale che ci accompagnerà nell’analisi di questa parola. Che è abbastanza nuova, e che quindi conveniva scolpire nel pensiero.
Seconda premessa: proprio per l’influenza dell’inconscio, è possibile che con tutto l’impegno che ci mettiamo, anche dentro l’accorato appello contro l’abilismo che inizia tra poche righe siano scivolati dei messaggi involontariamente abilisti. Chiedo alla comunità disabile di credere nella buona fede ed, eventualmente, segnalare/correggere i miei errori. Grazie
Ora cominciamo dalle canzoni, che sembra più leggero.
Canta che ti passa?
No che non passa: mica è una malattia la disabilità, come vedremo più avanti. E poi, se la musica avesse anche il potere di eliminare le barriere culturali, saremmo a posto. Può ispirare, però.
Molti artisti ci hanno provato, dando voce alle persone che sono discriminate per le loro disabilità.
C’è la canzone di Morandi sopra citata, del 2003, Il mio amico.
L’anno prima, su invito di Pubblicità Progresso, Lucio Dalla scriveva Per sempre presente:
Non è vero come dice qualcuno: quello è diventato un po’ scemo
Non capisce più niente / è che il dolore ha il sopravvento
Toni in bilico tra il patetico e il paternalistico, ok. Meglio che niente.
Ci ha provato con l’ironia Lorenzo Baglioni, in Canto anch’io no tu no, inanellando una serie di problemi – niente treno, niente autobus, niente scale – per dimostrare che la vita in sedia a rotelle è resa ancora più complessa dalle barriere architettoniche presenti nelle nostre città.
Jovanotti con l’autoironia:
bruttissima questa canzone, lo so, è una delle canzoni più brutte
che siano state mai scritte, ma l’ho scritta con il cuore
dice commentando la sua Dammi più voce, dedicata a Spartaco, un ragazzo con sindrome di Down, scritta per lanciare sui social una raccolta fondi.
Nel 2007 addirittura vince Sanremo Ti regalerò una rosa, struggente lettera che un uomo con problemi psichiatrici scrive all’amata dal buio del manicomio dov’è rinchiuso. Scelta coraggiosa trattare la disabilità psichica, tra le più difficili da riconoscere e accettare nella nostra società.
Cambiando arte, molti film raccontano la disabilità. Per limitarci a una manciata: Nato il quattro luglio, di Oliver Stone, tratta le vicende di un eroe del Vietnam dopo la perdita delle gambe e il reinserimento nella società; la stessa sorte del tenente Dan di Forrest Gump. Rocambolesche combinazioni di discriminazione e di amicizia in Quasi amici, il cinismo romanesco di Verdone in Perdiamoci di vista, fino al recentissimo Corro da te (2022), dove la bellezza sfacciata di Miriam Leone e Pierfrancesco Favino mette in ombra la vita in sedia a rotelle, ma sparge comunque pensieri utili sull’argomento.
Se poi andiamo alla letteratura, possiamo perderci tra best seller recenti come La solitudine dei numeri primi e classici come Rosso Malpelo.
Cominciamo ora a scavare dentro la parola “abilismo”.
PER APPROFONDIRE: Le parole sono finestre oppure muri: il linguaggio della disabilità
Macro abilismo e micro abilismo
Qual è il ruolo del linguaggio nella gestione delle relazioni tra persone con e senza disabilità?
Per dirla con Marshall Rosemberg, psicologo americano fondatore del movimento per la comunicazione non violenta, le parole possono essere finestre oppure muri.
Il linguaggio è un fattore ambientale, è collocato in un contesto, e quindi può fungere da barriera o da facilitazione all’inclusione.
Alcune parole possono essere percepite come offensive, lesive della dignità personale, indipendentemente dalla volontà di chi le dice. Uno scrupolo di rispetto può essere d’aiuto per prevenire certe gaffe, o non inciampare in termini orrendi come handicappato, paraplegico, invalido, ritardato, anormale, mongoloide, cerebroleso…
Quella desinenza -ismo, di per sé, sa di degenerazione, come sessismo, razzismo ecc.
È frutto di pregiudizi sociali, spesso inconsci, forse ancora più difficili da rimuovere o correggere. Esprime un pensiero che crea e irrigidisce la dicotomia abile/non abile. Definisce le persone solo per la loro disabilità, ne attribuisce a priori certe caratteristiche, imprigionandole in stereotipi.
Rientrano nell’abilismo comportamenti di vario tipo, più o meno evidenti, spesso interiorizzati dalle stesse persone con disabilità. Tra questi: la spettacolarizzazione, gli atteggiamenti pietistici o paternalistici (poverino quell’invalido, quel cieco, quello costretto in carrozzina); o l’infantilizzazione, come il cameriere che al ristorante si rivolge al vicino, chiedendo «per il ragazzo cosa portiamo?».
Nel linguaggio comune, con le metafore sei sordo? sei cieco? sembri un handicappato, la disabilità è usata per esprimere una negatività, spesso senza considerarne l’effetto discriminatorio.
Auspicando che manifestazioni così evidenti siano in diminuzione, possiamo riconoscere anche forme minori di comportamento abilista, più nascoste, insinuate nel quotidiano. Per esempio, scegliere un luogo inaccessibile per un meeting o un evento, o usare una sedia a rotelle di qualcun altro per appoggiarsi, o per appoggiarci sopra degli abiti.
Poi ci sono forme di micro-aggressioni abiliste. Per esempio, fare domande invasive sulla storia medica o sulla vita intima di una persona con disabilità; supporre che la disabilità debba essere ben visibile, altrimenti che disabilità è; chiedere «Quanto sei disabile?» o «Com’è successo?».
Spesso queste micro-aggressioni partono da spunti goliardici, non intenzionalmente offensivi. È uno psicopatico, oggi sei bipolare, hai finito le medicine?, bisogna che ti trovi uno bravo: battute da spogliatoio, che però implicano che una disabilità renda una persona inferiore, che sia un problema da risolvere, anziché una parte inevitabile dell’esperienza umana.
PER APPROFONDIRE: Diversity Language
La disabilità non è una malattia
Tra gli atteggiamenti abilisti c’è anche il presupporre che la disabilità sia una malattia, una disgrazia, che necessiti di una “riparazione”.
A volte non è la disabilità a provocare sofferenza, ma l’impossibilità di fare certe cose quando ci scontriamo con un contesto sfavorevole. Differenza tutt’altro che banale: per un bambino la malattia si trasmette, “se sto vicino a una persona cieca prendo la cecità?”.
Evitiamo dunque il linguaggio pietistico, compassionevole, o sensazionalistico, come costretto sulla carrozzina, relegato, ridotto in carrozzina; meglio persona che si sposta in carrozzina; evitiamo di dire affetto da disabilità, soffre di… Queste espressioni pongono la persona con disabilità come una vittima da aiutare. Meglio persona con disabilità.
Può essere utile, su questo, vedere com’è stata definita la disabilità dagli organismi internazionali, nello scorrere degli ultimi decenni.
1970: l’Organizzazione Mondiale della Sanità pubblica l’International Classification of Deasese, ICD. Primo passo verso una precisa identificazione, ma il vizio è già un po’ nel nome, desease. Approccio medico e causale: la disabilità è espressione di una patologia.
1980: l’OMS pubblica l’International Classification of Impairments, Disabilites and Handicaps, ICDH, che introduce un significato preciso: impairment, menomazione, perdita, anormalità di una funziona fisica o psichica. Disability è quindi, a seguito di un impairment, la diminuzione della capacità di svolgere alcune attività, misurabile rispetto a un certo standard di normalità. Dunque: se ho una menomazione ho una disabilità e un handicap nella società. Al di là delle aberrazioni insite nei concetti di normalità, anormalità, di standard di normalità, è ancora un approccio tutto legato alla persona, rigido e bloccante nella sua concatenazione logica.
2001: arriva una rivoluzione con l’International Classification of Functioning, Disability and Health, ICFDH. Centro sul functioning, il funzionmento. L’OMS attesta che le due classificazioni precedenti non descrivono la realtà delle persone, sia per l’approccio medico sia per il determinismo che ne deriva. Scompare il concetto di handicap, e arrivano il concetto di funzionamento e il ruolo dell’ambiente.
Il ruolo dell’ambiente
Dunque la disabilità si delinea in modo nuovo: non è una condizione immutabile, ma la conseguenza di una complessa relazione tra la salute di una persona e i fattori personali e ambientali, le circostanze in cui vive. Ambienti differenti possono avere un impatto diverso sullo stesso individuo con una certa condizione di salute: se l’ambiente è una barriera, la disabilità è messa in evidenza; se invece l’ambiente è un facilitatore, può uscirne il funzionamento.
Negli ultimi anni diverse aziende che producono oggetti di uso comune hanno inserito questo concetto nelle loro dichiarazioni valoriali: l’accessibilità è un diritto umano fondamentale, e quindi è quel prodotto che deve adattarsi a chi lo usa, non il contrario. Lo stesso dovrebbe valere per l’ambiente.
Per esempio, se una persona è cieca – mal funzionamento degli occhi – inevitabilmente risentirà di un handicap. Secondo l’ICFDH, la cecità genera una disabilità nel momento in cui l’ambiente erige delle barriere e fa esprimere la disabilità visiva. Se invece esistono dei facilitatori, si esprime il funzionamento. Pensiamo, negli ambienti di lavoro, ai tasti braille sugli ascensori, o ai software accessibili dagli screen reader: la persona cieca può esprimersi come la persona vedente.
S’inquadra così un’esperienza che tutte le persone, nel corso della vita, possono sperimentare: in base al cambiamento delle proprie condizioni di salute, e in base a come l’ambiente può essere una barriera o un facilitatore. Non si parla più di una condizione che colpisce una minoranza di persone, ma di qualcosa che può riguardare gran parte dell’umanità. E non è quello svantaggio ineluttabile che la persona deve sopportare (portatore di handicap), ma un quadro di problemi su cui tutti potremmo avere un grande ventaglio di soluzioni.
PER APPROFONDIRE: Disabilità: parliamone. Ma come?
La persona innanzitutto: lasciamo la disabilità nell’aggettivo
Un errore nel quale s’incorre spesso è evidenziare la disabilità anziché la persona. L’aggettivo “disabile” e tutti gli altri termini che indicano il tipo di disabilità (paraplegico, tetraplegico, cieco, sordo, amputato ecc.) non vanno usati come sostantivi, altrimenti si confonde una parte con il tutto, si schiaccia la persona sotto la disabilità, la si riduce a una sola delle sue caratteristiche.
«Io sono più della mia cecità», dichiara ad alta voce Cecilia Fort, Disability Champion di Generali Italia, appassionata divulgatrice della cultura della disabilità. «La prima cosa da tener presente quando si parla di disabilità, e quando si parla con persone con disabilità, è usare un linguaggio rispettoso che si focalizzi sulla persona, anziché sulla sua specifica disabilità, che deve rimanere in secondo piano, come uno dei suoi tanti attributi. Quando devo descrivere me stessa, dico che sono una donna bionda, una lavoratrice qualificata e una persona cieca. Ecco perché dico che sono più della mia cecità: la mia cecità si affianca alle tante altre caratteristiche che mi completano.»
Attenzione ai sostantivi, dunque: sono le parole che più definiscono la sostanza (sub-stanzia, ciò che sta sotto) delle nostre idee (che poi, se guardiamo davvero la sostanza, più che abili o disabili, a dirla tutta, siamo tutti limitatamente o temporaneamente abili; i miei dolori alle anche, da logorìo sportivo, sono sempre lì a ricordarmelo).
Funziona così: se comincio a chiamare una cosa, una persona, un comportamento, con un nome differente, dopo un po’ quella cosa, quella persona, quel comportamento cambiano significato e valore. Per me e per chi mi ascolta. Sono processi chiamati dai linguisti nominalizzazioni, categorizzazioni, stigmatizzazioni. E che diventano, in un attimo, pregiudizi inconsci, che si trasmettono nelle famiglie, nei gruppi organizzati, modi di essere e di concepire l’essere degli altri.
Sappiamo bene che chi fa una stupidata non è per forza uno stupido, chi dice una bugia non è in automatico un bugiardo. L’esperienza nell’educazione dei figli, o nelle gestione delle relazioni professionali, c’insegnano a correggere i comportamenti scorretti, non a colpire le persone. Com’è allora che continuiamo a dire i ciechi, i sordi, gli zoppi, i disabili…, come nel linguaggio medico i tossici, i depressi, i cronici? Diverso se metto un certo significato in un aggettivo, o in una descrizione, collegato a persona: persona cieca, persona sorda ecc.: il tono diventa più rispettoso.
Altre espressioni, invece, van proprio evitate. Un giorno in un bar ho sentito questa: «L’hanno assunto perché è disabile». Risposta di una commensale (l’avrei applaudita): «Ah, se mi procuro una disabilità assumono anche me?».
Politically correct?
La vignetta di Vauro qui riprodotta è nel portale Treccani Lingua Italiana, alla voce Politically correct.
Dire “diversamente abile”o “con abilità diverse” lascia intendere che qualcuno sia comunque diverso dagli altri; in pratica, inferiore.
Nè ci salviamo con la negazione: non vedente o non udente invece di cieco o sordo non migliorano la condizione di chi vive una disabilità. In entrambi i casi si sottintende una premura dal sapore pietistico e compassionevole, poco utile se vogliamo trattare una persona con disabilità al pari degli altri.
Da evitare anche le inutili inibizioni: dire a una persona cieca «ci vediamo dopo», o «hai visto?», o a una persona che si muove in sedie a rotelle «fai un salto qui» o «dai muoviti», può essere accettato (anzi, spesso le persone con una disabilità sensoriale tendono a sviluppare nel linguaggio proprio quello specifico riferimento sensoriale). Evitiamo di irrigidire il discorso se è presente una persona con disabilità: esclude, non include!
Oltre le parole: il linguaggio dei comportamenti
Dopo aver scavato dentro la parola “abilisimo”, proviamo a fare un po’ di luce anche fuori. Il linguaggio è infatti anche quello dei comportamenti. Alcuni consigli pratici.
– Con una persona in carrozzina. Se la conversazione dura qualche minuto, meglio sedersi, allineando il proprio sguardo dentro il suo. Non spingere la carrozzina, se non richiesto. Non appoggiarsi alla sedia, né appenderci qualcosa sopra.
– Con una persona cieca o ipovedente. Sempre utile identificarsi: «Sono Tizio, alla mia destra c’è Caio». Molto importante anche fare una descrizione verbale dell’ambiente in cui ci si trova e di ciò che accade intorno. Non potendo usare le espressioni del volto o i gesti, bisogna farsi capire solo con le parole e con le sfumature paraverbali (volume, velocità, pause, intonazioni…). E attenti al cane: non accarezzare, toccare, richiamare o offrire del cibo a un cane guida mentre indossa la pettorina: sta usando tutte le proprie risorse per concentrarsi.
– Con una persona sorda. Prima di parlare, attirare la sua attenzione con un contatto visivo o con un tocco leggero sulla spalla, accertandosi di non essere in ombra. Lasciare la bocca ben visibile, e articolare chiaramente le parole, senza urlare (che altera i movimenti delle labbra). Concentrarsi sulla sostanza del discorso e non cambiare argomento improvvisamente: anche i più veloci interpretano non più del 40% del discorso leggendo le labbra, il resto lo indovinano o lo ricostruiscono dal contesto.
Fin qui, qualche scrupolo per la coscienza.
Poi, speriamo che anche l’inconscio sia stato a sentire.