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It’s not time to make a change
Just relax, take it easy
You’re still young, that’s your fault
There’s so much you have to know

Cat Stevens, Father and Son

«Posso chiederti quanti anni hai?» 

«Non si chiede l’età a una signora»

Capita ancora di assistere a scenette come questa o, a volte, di esserne parte.

Come se l’età fosse solo un numero, come se dichiarare l’età, a qualunque età, fosse sconveniente. E non vale solo per le donne, il concetto di età è democratico e riguarda tutte le persone.  Ci confrontiamo ogni giorno con il concetto di età: la data di nascita, le aspettative che abbiamo rispetto a persone che appartengono a una specifica generazione, gli appellativi junior o senior, i segni del tempo sul viso e sul corpo, la percezione del nostro presente e del nostro futuro. 

In base agli stadi dello sviluppo (infanzia, adolescenza, giovinezza, età adulta e vecchiaia), tendiamo a categorizzare –  inconsapevolmente e con la spinta della narrazione pubblicitaria e del marketing – le persone ai poli di questa linea del tempo, giovani o anziane. La giovinezza e la vecchiaia però sono stereotipi, categorizzazioni consolidate e arbitrarie. Quando una persona può definirsi vecchia? Quando invece è giovane?  Rispetto al passato, tra l’altro, le classiche tappe (scuola, università, lavoro, famiglia, pensione) sono molto cambiate, cambieranno ancora, e con loro cambiano anche le nostre categorizzazioni.

Classificare le persone giovani o anziane spesso porta con sé il peso del pregiudizio e non mette in conto che c’è uno scollamento tra la realtà oggettiva, cioè l’età anagrafica, il numero, e la realtà soggettiva, come ci sentiamo noi stessi e come ci percepiscono le altre persone. 

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Alessandro Lucchini

Tra pischelli e vecchi rimbambiti

Il termine ageism (da age: età) nasce nel 1969 da un’idea dello psichiatra e geriatra americano Robert Neil Butler, per assonanza con parole come razzismo e sessismo. 

Partiamo dalla definizione in inglese. Apro un paio di dizionari.

  1. Discrimination or prejudice against persons on the basis of their age. 

E fin qui, mi trovo. Ma poi? 

2) Unfair treatment of people because they are considered too old.

Come? Solo il “too old”? non anche viceversa?

Proviamo con l’italiano, anche se la parola ageismo non è ancora di uso comune. Sorpresa: o non trovo nulla, o trovo “discriminazioni basate sull’età”, o direttamente “discriminazione degli anziani”. Anche qui: come se la discriminazione potesse essere a senso unico, dai giovani verso gli anziani. È davvero scomparso il nonnismo, quella forma di bullismo che consente ai più anziani di schernire, offendere, sottomettere i più giovani? E non solo dalle caserme: intendo nelle scuole, negli uffici privati e pubblici, negli ospedali. Frasi come «fotocopiami questo fascicolo, così ti fai le ossa», o «dategliela a quello nuovo ’sta mappazza», o «se la fa il pischello la guardia ’sto weekend», sono scomparse dal frasario degli ambienti di lavoro?

Il Treccani poi mi stabilizza: Forma di pregiudizio e svalorizzazione ai danni di un individuo, in ragione della sua età; in particolare, verso le persone anziane.

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Un pregiudizio democratico

I pregiudizi sull’età sono consolidati da secoli, forse ben più radicati nella parte conscia del nostro agire. Pensiamo alla letteratura classica, al teatro, al cinema, dove l’eroe in genere è un giovane ardimentoso, e l’anziano è saggio, sì, ma spesso anche malandato e magari pure un po’ rintronato.  Pensiamo al messaggio di certe canzoni. Da Father and son, di Cat Stevens, dove un padre sbraita perché il figlio la pianti di scalpitare per cambiare il mondoe si trovi una brava ragazza, e il figlio gli rimprovera di non capire un accidente.

A Teach your children, di Crosby Stills and Nash, che suggerisce ai genitori

Insegna bene ai tuoi figli 

l’inferno dei loro padri è svanito, 

nutrili dei tuoi sogni 

Ma nel contempo suggerisce ai figli

E tu, di tenera età,

non puoi sapere delle paure in cui sono cresciuti i tuoi genitori,

aiutali con la tua giovinezza,

insegna bene ai tuoi genitori

O anche a Un vecchio e un bambino, di Guccini, dove fin dalla prima strofa i due si preser per mano, e andarono insieme incontro alla sera.

Oppure A modo tuo, di Elisa, che dedica alla figlia questi versi 

Sarà difficile diventar grande
Prima che lo diventi anche tu

Tutte le persone giovani – auguriamolo loro, almeno – un giorno saranno vecchie. E tutte le persone vecchie sono state giovani. Sono le due esperienze che più facilmente convivono nella vita di chiunque. È vero, le une in genere non pensano le altre come semplicemente un tempo diverso di se stesse, ma il loro inconscio è intimamente più connesso. Questo certo non significa che la contrapposizione tra le due età estreme non possa essere pericolosa. Tutt’altro. Forse però significa, rispetto ad altre forme di pregiudizio o di discriminazione, che qui può essere più agevole una soluzione d’inclusività, basata sulla reciprocità, sull’intuizione del vantaggio possibile dallo scambio di punti di vista. 

L’età come il numero di scarpe

Come tutte le forme di discriminazione, anche l’ageismo è definito da un gruppo di maggioranza e usato come metro di giudizio per tutto ciò che è esterno a quel gruppo. 

L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), inoltre, denuncia che nel mondo 1 persona su 2 è ageista, ossia discrimina le persone anziane. Le persone più in età sono associate a fragilità e malattia, e possono essere felici e in salute solo se si mantengono giovani.  In una potente campagna, l’OMS urla «Stop defining by my age», e spiega che l’ageismo può limitare seriamente le opportunità e accorciare la vita. In un’altra campagna la parola AGE è incorporata dentro parole terribili come damAGEd, disparAGEd, disadvantAGEd, discourAGEd, ravAGEd.

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Il problema è serio.

Voglio solo notare che, forse, più che in una contrapposizione ideologica, l’ageismo si colloca in una dialettica naturale. Allenarsi a comunicare correttamente il processo dell’invecchiamento può aiutare le persone anziane ad affrontare l’età e quelle giovani a promuovere comportamenti positivi e inclusivi in ​​tutti gli aspetti della vita, dai luoghi di lavoro a quelli di svago, dalla politica ai media, ai social media (qualcuno parla addirittura di positive ageism).

Alexa Pantanella, esperta di linguaggi inclusivi e fondatrice di D&I Speaking, suggerisce: «E se facessimo dell’età uno di quei numeri che ci accompagnano, tipo il numero delle scarpe che portiamo? Chi ha interesse a conoscere quanto portiamo di piede? E che valore ha questo numero nel definire se stiamo vivendo più o meno bene una fase della vita?»

Prima o poi ci tocca

Di essere persone giovani? 

Di essere persone anziane?

I ragazzi di oggi una volta eravamo noi
Eravamo noi quelli sbagliati, maleducati
Seduti al banco, sì, ma degli imputati
E adesso siamo noi

Che facciamo i nostalgici, patetici
Cercando un mondo che non c’è più
Che non c’è neanche mai stato, ce lo siamo inventato, dai
Lo abbiamo visto solo alla TV
Che lo diceva tua madre, lo diceva tuo padre
E adesso invece, lo dici tu
Che ‘sti ragazzi di oggi, ‘sti ragazzi di oggi, ‘sti ragazzi di oggi
Non li capisci più

Ok, Boomer, dei Zen Circus con Brunori Sas. 

(Data di uscita: 13 maggio 2022. Ecco. Giusto perché mi pareva di sentire qualche commento sulle precedenti citazioni musicali da boomer).

Una volta eravamo noi e adesso invece, lo dici tu. 

L’ageismo è la discriminazione in cui può capitare d’immedesimarci tutte e tutti, prima o poi. 

Prima o poi ci tocca essere tra le persone più giovani, quelle cresciute nella bambagia, che non han voglia di lavorare, che non apprezzano ciò che hanno, immature e prive dell’esperienza utile per vivere la vita e la professione. I bamboccioni.

E prima o poi ci tocca essere persone anziane, ritenute lente, meno motivate ed entusiaste, ferme nelle loro idee e poco inclini ai cambiamenti.

Per questo, dicevo poco sopra, la diversità in questo ambito può già contenere in sé la chiave  dell’inclusione. Frasi come «Quando avrai la mia età», o «Sei troppo giovane per capire», da un lato,  e dall’altro come «Come sei boomer!», o «È troppo vecchio per quell’incarico», possono essere più facilmente conciliabili grazie al linguaggio, e anche più capaci di produrre nuovo valore.

Prendiamo la frase appena citata: «È troppo vecchio per quell’incarico». Si può gestire con una domanda (attenzione al tono, che non suoni polemico!), per generare un dubbio e sciogliere la rigidità: «Intendi vecchio in senso anagrafico o per il valore della sua esperienza?». O, all’opposto: «La nuova ragazza del terzo piano è un’incapace». Ristrutturazione possibile: «È nuova, appunto. Per essere alla prima esperienza, ha avuto un buon inizio.» Se con il linguaggio evitiamo di sclerotizzare le differenze, e troviamo il punto di snodo tra una posizione e l’altra, questa diventa un elemento di contatto, anziché di divisione.

Un buon esempio, in questo senso, è il Protocollo boomer, la spassosa idea del gruppo comico The Jackal, che spiega l’apparente difficoltà dei genitori nell’utilizzare la tecnologia e i media digitali come un pretesto per ottenere attenzione da parte dai figli. Sorridendo, è individuata una chiave positiva. 

L’acqua calda: il mutual mentoring

Il problema delle differenze generazionali, dunque, può trovare in se stesso la soluzione. È quello che oggi viene chiamato reverse mentoring, o meglio mutual mentoring.

Mentore è il personaggio della mitologia greca cui Ulisse affida il figlio Telemaco prima di partire per la guerra di Troia. Simbolo di fiducia totale. Nelle imprese, il mentore non ci evita di compiere errori, non ci risolve i problemi né ci indica come comportarci. Al contrario, grazie alla sua esperienza, ci aiuta a risolvere le cose da noi stessi, senza dire «io farei così», o «in casi come questo io ho fatto così», ma solo dicendo «ok, osserviamo questa situazione», o al massimo «cosa pensi di questo?». In pratica, il mentore usa la propria saggezza per aiutare qualcun altro a sviluppare la sua. Questo, a ben vedere, può funzionare in entrambe le direzioni del confronto generazionale. Il mutual mentoring è un patto, è la scintilla di uno scambio di valori e competenze, di una relazione non gerarchica, basata sulla reciprocità e sul desiderio d’imparare, l’una parte dall’altra. Vero, sembra l’acqua calda. Ma c’è di più. Nello stereotipo, l’età buona per commettere errori è la giovinezza. Quando sono maturo, il mondo si aspetta che io non commetta più errori, o almeno i soliti errori. A meno che sia molto vecchio, e allora torna l’immagine del vecchio rimbambito. 

Invece ogni età ha i propri errori. E che errore abbia lo stesso etimo di errare è solo un motivo in più per accogliere il concetto con benevolenza. Tutti commettiamo errori, a ogni età. E a tutte le età l’errore è fonte di conoscenza. Sterminata la letteratura sull’argomento: da Cicerone, che nelle Filippiche spiega: «l’errare è di tutti; il perseverare è dell’ignorante»; a Bertolt Brecht: «Intelligenza non è non commettere errori, ma scoprire subito il modo di trarne profitto», fino al bel libro di John Maxwell Sometimes you win, sometimes you learn, che dimostra che i grandi apprendimenti della vita si traggono proprio dalle sconfitte. A tutte le età. Essere vicini a un’altra persona, per sostenerla nell’affrontare prove difficili, nel gestire i propri errori, è proprio il senso del mentoring, pratica sempre più diffusa nella cultura manageriale contemporanea. 

Per carità! Nessun scimmiottarsi. Patetico se io attacco a parlare come i miei studenti (anche se familiarizzare con il “giodizio”, il gergo giovanile, è una scoperta molto istruttiva per ogni persona matura). Come pure suonano strane le frasi dei vecchi in bocca ai giovani. Molto più agevole è condividere il linguaggio di certe attività “cross”, che possono appassionare generazioni diverse: musica, fotografia, sport, pesca, bicicletta. Ne sa qualcosa Luciana De Laurentiis, che ha raccontato in un TED i vantaggi delle matching skills, ossia la condivisione di abilità per la contaminazione positiva. Tutt’altro che facile. Ma quando c’è rispetto, c’è reciprocità. E basta uno sguardo anche dentro la parola reciprocità: Recus =indietro, procus =avanti. Reciproco: ciò che va e torna. Perché è vero che ogni scambio inizia con un atto di fede – la fiducia, l’amore, il chiedere scusa, il disarmo – ma è quando poi diventa reciproco che qualcosa di prezioso si accende.