Il sogno di 12 studenti del liceo
“Volevamo creare un social network che facesse concorrenza a Facebook”, ammette candidamente Matteo Biasi, imprenditore di 24 anni, fondatore di FlashBeing, startup della quale è ancora saldamente al comando, anche se ha mutato pelle e cambiato mercato, perché non è poi così facile competere contro la corazzata di Zuckerberg.
“L’idea – prosegue Matteo – è nata sui banchi di scuola ed era sviluppare un Facebook tutto italiano che mettesse la privacy della persona al centro e fosse anche un aggregatore di notizie, non un semplice posto in cui buttarci dei link da condividere. Ne parlavamo nelle ore di lezione, soprattutto all’intervallo, c’è stato un passaparola e ci siamo ritrovati in 12. Le riunioni le facevamo al pomeriggio, in camera mia, e faticavamo a starci tutti”.
I primi finanziatori: 250mila euro
“La parte più facile – racconta ancora Matteo con un filo di incredulità nella voce – è stato reperire i nostri primi 250 mila euro”. E qui i nostri giovani eroi dimostrano di avere una propensione per gli affari che è classica dei manager consumati. “Abbiamo incontrato i nostri finanziatori sulle piste da sci. Abbiamo esposto loro il progetto, siamo stati convincenti e abbiamo ottenuto un finanziamento. All’epoca pensavamo persino che un incubatore ci avrebbe rallentato”.
Il lancio del Facebook italiano, con tanto di evento
“Parte dei soldi li abbiamo investiti nel party organizzato in paese per festeggiare il lancio del nostro social network. Un evento in grande stile, un teatro pieno, avevamo persino noleggiato diversi pullman per portare spettatori da Milano e dalle principali città del Nord Italia. Abbiamo creato così tanto hype che si erano interessati a noi persino televisioni, agenzie di stampa e radio nazionali”. “In poche ore – ricorda Matteo – contavamo già almeno un migliaio di iscritti al nostro Facebook. Pensavamo di avercela fatta davvero”.
“C***o, nessuno lo usa!”
Quindi il momento tanto atteso o, a posteriori, l’attimo esatto nel quale il sogno di 12 ragazzi del Nord Est si scontra contro la dura realtà: tra loro non siede alcuno Zuckerberg italiano. “Lanciamo il social network e… c***o, nessuno lo usa!”, ride, un po’ imbarazzato, l’ad di FlashBeing.
“Oggi – ammette Matteo, che non ha mai smesso di rimuginare su cosa è andato storto – sappiamo di avere commesso diversi passi falsi che ci furono fatali. A partire dall’avere insistito troppo sulla privacy degli utenti”. “In pratica – spiega il fondatore di FlashBeing – se uno metteva al massimo le impostazioni sulla riservatezza, risultava come ‘utente privato’ perché nemmeno nome e cognome erano pubblici, figurarsi la foto. Quindi era impossibile creare una community perché la gente si iscriveva a FlashBeing ma poi non trovava nessuno che conoscesse”.
“In più, proprio in quei mesi il mondo passava dal computer agli smartphone. E noi avevamo strutturato il nostro social network per essere usato soprattutto su PC. Insomma, sbagliammo proprio momento!”
Il gruppo si sfalda
“Quelli – ricorda Matteo – furono i mesi più difficili. Avevamo perso gran parte dei 250mila euro raccolti, allo stesso modo il team si era sfaldato perché molti si erano aggregati non per reale interesse, ma per fare soldi”. “Ecco – riflette il founder di quella che sarebbe dovuta essere la risposta italiana a Facebook – se dovessi dare oggi un suggerimento a chi avvia una startup sarebbe trovare dei soci che sposino davvero il progetto e che non lo facciano solo per il ritorno economico: da 12 finimmo a stare in due. Poi uno soltanto: io”.
“Lì realizzai che un incubatore sarebbe servito”, ammette il giovanissimo imprenditore. “Non basta una buona idea per mettere in mano a dei ragazzini 250mila euro. Eravamo tutti troppo entusiasti, giovani e inesperti per avere una visione corretta di ciò che stavamo facendo. Capii anche che quando si cerca un finanziatore deve essere competente, avere know-how da passare e non solo denaro da sborsare”.
Toccato il fondo, non resta che risalire: “Decisi di investire il poco che restava per aprire una sede: per rilanciare FlashBeing bisognava dargli nuova credibilità, un luogo fisico in cui poterci trovare. Basta con le riunioni in camera mia. Anche perché tanto ero rimasto solo. Per seguire il progetto lasciai l’università”.
La rinascita di FlashBeing
Non c’è tempo per leccarsi le ferite. Matteo riesce a coinvolgere nuovamente altre persone, ritrova vecchi compagni d’avventura e, assieme, intuiscono che se non è possibile sfidare Facebook, c’è comunque spazio per un social network rivolto esclusivamente ai lavoratori.