Assieme al marito ha fondato Translated, una delle agenzie di traduzione più conosciute a livello globale. Isabelle Andrieu, classe ’75, originaria di Versailles durante l’università conosce Marco Trombetti, romano arrivato in Francia con il progetto Erasmus. «Avevo poco più di 20 anni, ho lasciato la famiglia in Francia e mi sono trasferita a Roma. Quando sono arrivata in Italia ho iniziato a mettermi sotto con alcuni lavoretti, ma con Marco non ci vedevamo quasi mai perché spesso dovevo andare dall’altra parte della città. A quel punto mi sono chiesta che senso avesse, dato che ero venuta per stare con lui. Così abbiamo deciso di crearci un lavoro tutto nostro. Senza business plan, senza grandi aspettative, ma con la voglia di costruire qualcosa di bello, che potesse risolvere un problema reale. Così è nata l’idea di Translated. Abbiamo comprato il dominio per 100 dollari e siamo partiti». Oggi Isabelle, che ha una passione smisurata per tutto ciò che riguarda la creazione di relazioni e connessioni, oltre a guidare con Marco Translated è un’imprenditrice e investitrice nel settore tech, CEO di Pi School, sostenitrice di FirstBoard.io, un’iniziativa che promuove la presenza femminile nei consigli di amministrazione, e ambassador di GammaDonna. La storia di una delle protagoniste di SIOS25 Sardinia: Next Edge nella nuova puntata di Unstoppable Women.

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Isabelle, durante la tua carriera sei mai stata vittima di gender gap?
Non direttamente. Nel team di Translated siamo 50/50 e ho sempre guadagnato al pari di altre figure maschili. Aldilà della mia esperienza personale, sono consapevole che il gender gap esiste ancora, soprattutto in Italia, e in molte regioni è ancora profondamente radicato. Per questo ho scelto di impegnarmi anche al di fuori dell’azienda, per cercare di arrivare concretamente a un cambiamento culturale. Come ambassador di GammaDonna, contribuisco a valorizzare l’imprenditoria femminile e promuovere messaggi positivi su tutto il territorio nazionale, anche nelle aree più periferiche. É molto importante dare un contributo di testimonianza e visibilità a role model capaci di ispirare. Inoltre, sostengo attivamente anche FirstBoard.io, un’iniziativa che promuove la presenza femminile nei consigli di amministrazione. Non si tratta semplicemente di “inserire una donna” per rispettare una quota rosa, ma di trovare la persona giusta: competente, preparata, capace di portare vero valore. Credo profondamente che la diversità, se autentica, non rallenti il business, anzi, al contrario, lo acceleri.
Da quanto tempo ti occupi di people management?
Credo da sempre. È qualcosa che ho sempre sentito dentro. Mi ritengo una persona sensibile, empatica, e capace di entrare in sintonia con gli altri. Fin dai primi giorni di Translated, che ho co-fondato insieme a Marco quando avevamo 22 e 23 anni, ho voluto mettere le persone al centro: clienti, traduttori, collaboratori. Anche se nei primi anni ho ricoperto ogni tipo di ruolo, come spesso accade quando si parte da zero, il mio focus è sempre quello di creare relazioni, far crescere le persone e farle sentire parte di qualcosa. Oggi, questo percorso ha un nome e una forma: sono Head of People Department in Translated. Il mio lavoro è creare le condizioni perché ognuno possa sentirsi accolto, valorizzato e nelle condizioni di dare il meglio.
In Translated come integrate la tecnologia con il capitale umano?
La nostra azienda è composta per il 30% da tecnologia e per il 70% da persone: questo equilibrio la dice lunga su come siamo cresciuti. Sono fermamente convinta che la tecnologia sia un fattore abilitante, ma che poi sia l’essere umano a fare la differenza. Anche da un punto di vista strettamente business-oriented: se vogliamo crescere e farlo velocemente, come richiede oggi il nostro mercato, dobbiamo prenderci cura delle nostre persone, prepararle, supportarle e formarle per affrontare sfide sempre più grandi. Mettere le persone al centro non è solo un valore umano ma una strategia vincente.

Facendo un passo indietro, come è nata Translated?
Translated è una bella storia d’amore (io dico che è come un primo figlio anche se non vorrei che i miei figli lo sapessero!). Dopo aver conosciuto Marco, che era in Francia con il progetto Erasmus, ho deciso di mollare tutto: la famiglia, gli amici, e trasferirmi a Roma per stargli vicino. All’inizio mi dedicavo ad alcuni lavoretti, ma con Marco non ci vedevamo quasi mai perché spesso dovevo andare dall’altra parte della città. A quel punto mi sono chiesta che senso avesse stare lì: io ero venuta per lui. Così, abbiamo deciso di crearci un lavoro nostro. Senza business plan, senza grandi aspettative, ma con la voglia di costruire qualcosa di bello, che potesse risolvere un problema reale. Allora avevo dovuto tradurre una marea di documenti per trasferirmi in Italia, avevo avuto un’esperienza piuttosto frustrante. Con Marco la lingua era una delle cose che ci univano: io linguista, lui fisico e informatico. Così è nata l’idea di Translated. Abbiamo comprato il dominio per 100 dollari e siamo partiti. Poi quello che ci ha permesso di crescere velocemente è stato l’uso della tecnologia applicata al business.
Quando ti sei appassionata al tech?
Io non ho un background tecnico: sono una linguista. Ho studiato Lingue e Commercio internazionale all’università di Grenoble, in Francia, quindi il mio percorso nasce con un forte orientamento umanistico. Ma fin dall’inizio ho abbracciato l’idea di utilizzare l’Intelligenza artificiale come uno strumento fondamentale per supportare e potenziare tutto ciò che facevo. Non serve essere ingegneri per comprendere quanto la tecnologia possa diventare un alleato potente, soprattutto quando viene utilizzata con consapevolezza e visione. Quello che mi appassiona è proprio questo: vedere come il tech, se guidato da buone intenzioni e da un pensiero strategico, possa permettere all’essere umano di fare cose straordinarie.
Puoi fare qualche esempio?
Si, mi viene in mente il caso di Airbnb, uno dei nostri clienti storici. A un certo punto avevano bisogno di tradurre una quantità enorme di contenuti generati dagli utenti del sito, in oltre 60 lingue. Un progetto così, se gestito solo con risorse umane, avrebbe richiesto mesi di lavoro e un investimento economico gigantesco. Ma per il loro business era cruciale: significava rendere il servizio accessibile e comprensibile a milioni di persone in tutto il mondo. Quindi, grazie a una combinazione intelligente tra traduttori professionisti e AI, siamo riusciti a raggiungere un risultato di altissima qualità in una frazione molto ridotta di tempo.
È questo che rende l’unione tra uomo e macchina così potente: la macchina fa la parte più ripetitiva e veloce, mentre l’essere umano mette cultura, creatività, capacità. In un certo senso, è come se avesse un superpotere. Non ho mai pensato che l’AI potesse sostituire il valore umano ma amplificarlo. E quando c’è questa sinergia, il potenziale diventa straordinario.
Credi che il mondo del tech sia ugualmente accessibile a uomini e donne?
No, penso che sia un comparto che oggi è molto più accessibile agli uomini che alle donne, soprattutto nei ruoli tecnici e decisionali. Non per mancanza di talento o passione da parte delle donne, ma per un insieme di fattori culturali, educativi e sistemici che, purtroppo, ancora oggi scoraggiano o rallentano l’ingresso femminile in questo settore. Spesso le donne si ritrovano a dover dimostrare di più, a giustificare le proprie competenze, o a farsi spazio in ambienti che non sono stati pensati per includerle davvero. Questo accade in tutto il mondo, ma in Italia la situazione è un po’ più accentuata: mancano ancora modelli femminili visibili nel tech, una fiducia e un linguaggio che parli anche alle ragazze fin da giovani. Ma io mi sento ottimista e noto che le cose stanno cambiando. Vedo sempre più donne preparate, determinate, appassionate che stanno entrando nel settore e portando innovazione, sensibilità e visione. Il punto non è solo “includere le donne”, ma costruire un’industria tecnologica migliore, più diversificata, che risponda davvero ai bisogni di tutta la società. Perché la tecnologia che progettiamo oggi definisce il mondo di domani, e quel mondo deve essere di tutti.

Imprenditrice e madre di 3 figli, come sei riuscita a trovare un equilibrio tra famiglia e lavoro?
In realtà, parlare di equilibrio tra famiglia e lavoro è un po’ fuorviante, perché non è qualcosa di stabile o definitivo. È un equilibrio sottile, dinamico, che richiede continuamente aggiustamenti e, soprattutto, diversi “piani B”. Se c’è una cosa che per me è fondamentale, prima di tutte, è che io devo stare bene prima di potermi occupare di altri. E questo per me significa fare spazio a ciò che mi rigenera: fare sport, passare del tempo con le amiche, mangiare bene. Non è egoismo, si chiama “self-management”. Ho imparato questa lezione a mie spese: c’è stato un periodo in cui ho trascurato completamente il mio benessere mentale e fisico, presa dal lavoro, dai figli, dal matrimonio… e l’ho pagata con un burnout. Un’altra cosa che mi sono ripetuta spesso è che bisogna abbandonare il mito della perfezione. Spesso ci confrontiamo con modelli ideali: la madre perfetta, l’imprenditrice perfetta, la moglie perfetta. Ma non possiamo essere al 100% su tutti i fronti, il 100% del tempo, non è sostenibile e nemmeno umano. Nonostante questo, si devono sempre fare dei compromessi: ho accettato, rispetto a una mamma che non lavora, di avere meno tempo da dedicare ad alcune cose ma sono convinta che, alla fine, quello che conta non sia la qualità della presenza ma l’intenzionalità con cui faccio le cose. Per me, quindi, il vero “life balance” non è una formula magica, ma una pratica quotidiana fatta di ascolto, flessibilità e… tanta gentilezza prima di tutto verso sé stessi.
Oggi quali messaggi divulghi sui social e come utilizzi le piattaforme?
Utilizzo i social in modo diverso a seconda della piattaforma, ma l’intento è sempre quello di condividere ciò in cui credo profondamente. Su Instagram mi rivolgo più specificatamente alle donne. Lo faccio perché sento che ancora oggi non abbiamo tutto il supporto che ci servirebbe, né a casa né nel mondo del lavoro. Ma è terapeutico anche per me, perchè mi spinge a fare cose che altrimenti non avrei mai avuto il coraggio di fare, ad esempio partecipare a uno shooting fotografico o espormi con maggiore consapevolezza. Uso questo spazio per veicolare messaggi che io stessa ho bisogno di sentire: per motivarmi, per crescere, per concedermi di essere un po’ più indulgente. Parlo anche della mia “sindrome dell’impostore”, molto presente nella mia vita. Mi sento spesso “meno” rispetto al mondo intorno a me e credo che dipenda dalla mia educazione, ma anche dai messaggi culturali che riceviamo sin da piccole. Faccio fatica a riconoscere i miei meriti, e mi sento dire spesso che sono troppo umile. Ma ho imparato che condividere anche queste fragilità può aiutare altre persone a sentirsi meno sole.
Il mondo della traduzione però è in un certo qual modo minacciato dall’AI?
La lingua è la cosa più complessa che esista, è la massima espressione dell’intelligenza ed è grazie al linguaggio se ci siamo evoluti come specie, se abbiamo potuto capirci, collaborare, trasmettere idee, emozioni, costruire società. Quindi non è qualcosa che possiamo banalizzare. E per una macchina, affrontare la complessità del linguaggio è tutt’altro che semplice. È probabilmente la sfida più difficile in assoluto. Nel mondo della traduzione, si tende spesso a pensare che l’Intelligenza artificiale possa sostituire i traduttori. Ma la realtà è molto diversa: in questi anni, nel nostro settore abbiamo attraversato fasi molto chiare: prima del 2006 l’AI era praticamente inutile perchè le traduzioni automatiche erano molto lontane dal senso reale che i traduttori impiegavano più tempo a correggerle che a farle da zero. Poi è arrivata una seconda fase, che è quella in cui ci troviamo oggi: l’era dell’iperproduttività. Le macchine oggi sono in grado di produrre una prima bozza, una base, e i traduttori possono intervenire per rifinire, adattare, rendere tutto preciso. In questo modo, il traduttore diventa due, tre, anche quattro volte più produttivo. È un modello di collaborazione, di simbiosi tra umano e macchina. Ed è incredibile, perché non solo la macchina migliora grazie al contributo umano, ma al tempo stesso spinge l’umano a migliorare. Quando una macchina diventa più precisa, costringe anche il traduttore a cercare un livello di qualità ancora più alto. Così si cresce insieme. Poi arriverà un’ultima fase: quella in cui la macchina sarà talmente perfetta da non aver più bisogno dell’intervento umano. Ma non ci siamo ancora arrivati e non ci arriveremo presto, perché mancano ancora molti pezzi: dati per tante lingue, capacità di calcolo, algoritmi capaci di comprendere non solo le parole, ma il contesto, le emozioni, le intenzioni e tutto ciò che rende viva una lingua. Quindi, non è questa la strada. L’AI può potenziarli, aiutarli, renderli più liberi di concentrarsi su ciò che conta davvero. Ma togliere completamente l’umano dal linguaggio sarebbe come togliere l’anima a una conversazione. Ecco, questa, per me, è la vera forza dell’AI: non sostituire, ma amplificare. Non dominare, ma collaborare.