«Passavo notti insonni a controllare i risultati dei primi test sui pazienti. Non erano andati bene. Ci sono stati momenti in cui ho pensato di mollare tutto. Ma ho scelto di restare, convinto che la terapia funzionasse», ci svela Giovanni Mambrini, uno dei cofounder di EryDel, biotech italiana, poi acquisita dalla società americana quotata Quince Therapeutics nell’ottobre del 2023. Quando era ancora nota con il nome di EryDel la startup veniva premiata come Startup dell’Anno nel 2018, per la straordinaria innovazione che apportava nel campo medico, ovvero utilizzare i globuli rossi come vettori per il trasporto e la somministrazione dei farmaci.
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La storia inizia nell’Università di Urbino con due ricercatori, Mauro Magnani e Luigia Rossi, ideatori di un approccio che permetteva un rilascio lento del farmaco nei pazienti, con due vantaggi su tutti, ridurre gli effetti indesiderati e prevedere una sola infusione al mese.

Erydel alla ricerca di un mercato
Convinti della bontà delle loro soluzioni i due scienziati contattano Sorin (oggi LivaNova Group), azienda biomedicale di Mirandola, comune in provincia di Modena, dove lavora lo stesso Mambrini. Nato a Legnago di Verona nel 1972, è un chimico farmaceutico che fa una carriera veloce, fino a diventare allora uno dei responsabili scientifici di Sorin, oggi LivaNova Group. Dopo aver ottenuto il primo brevetto nel 1998 e fatte partire le prime sperimentazioni, Magnani propone a Sorin di creare una divisione separata, ma l’azienda che era focalizzata sullo sviluppo di dispositivi medici cardiologici rifiuta.

È un primo momento topico nella vita dell’azienda. Mambrini e Magnani escono da Sorin e per fondare Erydel. Il Ceo è Luca Benatti, biologo molecolare con grande esperienza nel mondo biotech, che lascerà l’azienda dopo l’exit. Mambrini diventa CTO. Intanto, arrivano i primi fondi. Il primo a crederci è Innogest, poi sarebbero arrivati nel tempo player come Genextra e Sofinnova Partners con un finanziamento di 26,5 milioni di euro.

Capitale necessario a proseguire nei test e a trovare un obiettivo preciso: trovare una cura all’atassia telangiectasia, malattia ereditaria caratterizzata da atassia (perdita di coordinazione dei movimenti) progressiva e immunodeficienza, che predispone allo sviluppo di infezioni ricorrenti e di tumori del sistema immunitario, che colpisce circa 10 mila persone tra Europa e Stati Uniti.

La malattia viene combattuta con l’iniezione di steroidi, la tecnologia EryDel permette ai medicinali di accrescere il rapporto efficacia/tollerabilità, permettendo una terapia cronica. Intanto ottiene il riconoscimento di orphan drug per il trattamento dell’AT sia dall’Ente regolatorio Americano (FDA) sia da quello Europeo (EMA). Partono i primi test in circa 20 centri nel mondo, tra cui India, ma le cose non vanno come sperato.

Cosa hanno detto i test?
Intanto non ci facciamo mancare nulla. Arriva anche il Covid, che rallenta di molto la nostra sperimentazione in India. I risultati non sono soddisfacenti, ma andando ad analizzare i vari cluster notiamo c’è una fascia di persone, i bambini tra sei e nove anni, nei quali il trattamento mostra molta più efficacia.
Nel 2018 la vittoria come Startup dell’Anno, lei era presente alla premiazione…
Sì, prima di allora eravamo conosciuti in ambito accademico, grazie alla vittoria sul palco di SIOS siamo diventati un caso studio e abbiamo ricevuto tantissime telefonate e riscontri. Per noi è stata una grande vetrina.

Poi c’è l’exit, come è andata?
Gli investitori chiedono a Benatti di trovare un’azienda per preparare una exit. Ci rivolgiamo a un financial advisor che ci segnala Quince Therapeutics, una biotech quotata al Nasdaq che era alla ricerca di una soluzione che fosse in uno studio di fase 3 (è quella che precede il go to market, ndr). Decide di comprare il 100% della società.
Con quali accordi?
L’acquisizione non viene fatta in cash ma con uno scambio di azioni, per un valore di 87 milioni di dollari, e con un accordo: l’ottenimento di 485 milioni di dollari al raggiungimento di determinate milestones. I soci di EryDel hanno mantenuto il 16,7% della proprietà»
Cosa è cambiato all’indomani dell’exit?
Intanto, è cambiato il Ceo e quindi la guida dell’azienda. Tuttavia, la tipologia di lavoro non ha subito tantissime rivoluzioni. Il team di ricerca e di produzione è rimasto in Italia, 25 persone qui e 15 negli Stati Uniti. C’è stato un timido tentativo di spostare il team in USA, ma siamo rimasti qui.
“Il team di ricerca e di produzione è rimasto in Italia“
Tentativo per l’effetto Trump?
Confesso che il timore c’è. I dazi di Trump potrebbero colpire duramente le aziende che producono in Italia e poi esportano negli Stati Uniti. Allo stato attuale delle cose, gli accordi con l’UE al 15% nel mondo farmaceutico sono ancora accettabili. Poi c’è da dire che il nostro prodotto ha margini decisamente più alti rispetto ai costi di produzione e questo potrebbe aiutarci a restare in Italia.

In una biotech ci vogliono anni per raccogliere i frutti di un lavoro, ha mai pensato di mollare?
Se guardo indietro penso di aver fatto un salto nel vuoto. Avevo un lavoro fisso vicino casa, avevo messo su famiglia (oggi ha due figli adulti e uno piccolo, ndr). Ho lasciato tutto e aperto EryDel a Urbino, a oltre 200 chilometri da casa. Ci sono stati i momenti bui quando nei primi test nel quale la presenza del farmaco nel sangue sembrava nulla. E altri nei quali i test su un campione della popolazione non aveva dato i risultati sperati. Poi anche con l’exit ho perso parte delle mie mansioni. Ma ho capito che erano incidenti necessari di un percorso e, soprattutto, che non bisogna mai lavorare per se stessi, farsi ingolosire dal proprio ego. Bisogna saper mettere da parte il proprio orgoglio per il bene del progetto.
“A volte bisogna mettere da parte il proprio ego per il bene del progetto“
Cosa ha capito nella sua lunga esperienza di startupper?
Innanzitutto che serve avere una solidità scientifica. Ci sono stati casi clamorosi di biotech super finanziate, come Rubuis Therapeutics che ha ottenuto 180 milioni di dollari, per poi fallire. Poi cercare una nicchia. All’inizio, volevamo provare la nostra soluzione sulla malattia di Crohn, sulla quale, tuttavia, c’era l’attenzione dei big del Pharma e non avremmo avuto spazi sul mercato. E poi ancora crescere senza fare mai il passo più lungo della gamba, avendo sempre una mentalità imprenditoriale. Investire sì, ma in modo proporzionato alla fase di sviluppo dell’azienda.

Cosa c’è nel futuro di Quince Therapeutics?
Dopo aver lanciato sul mercato il primo prodotto, creeremo altre linee per curare altre patologie infiammatorie. Inizieremo dalla distrofia muscolare di Duchenne, una malattia rara che causa la degenerazione dei muscoli scheletrici, della muscolatura liscia e del muscolo cardiaco.


