«Tale misura danneggerà l’ecosistema digitale italiano, scoraggerà gli investimenti infrastrutturali e introdurrà, di fatto, network usage fees in violazione degli impegni commerciali UE-USA dell’Agosto 2025, in cui l’Unione Europea si impegnava a non introdurre nessuna tipologia di network fee, puntando quindi sulla positiva cooperazione tecnologica tra Europa e Stati Uniti». Sono sei le associazioni di categoria – tra cui InnovUp – che hanno rivolto un appello inviando una lettera aperta alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, al ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, e al Sottosegretario all’Innovazione Alessio Butti.
E questo perché l’Agcom nei mesi scorsi ha approvato tramite delibera «gli esiti della consultazione pubblica sulla ricognizione delle condizioni di applicabilità del regime di autorizzazione generale previsto dal Codice delle comunicazioni elettroniche alle Content Delivery Network per la distribuzione dei contenuti via Internet». In altre parole le CDN sono state equiparate ai soggetti attivi nel campo delle telecomunicazioni, creando dal punto di vista degli stakeholder dell’ecosistema una confusione pericolosa.

Che cosa sono le Content Delivery Networks?
Le CDN sono network installati all’interno di infrastrutture delle telco o negli internet exchange point. Il loro scopo è velocizzare la fruizione ottimale di contenuti digitali da parte degli utenti. A livello geografico sono distribuite proprio per garantire la vicinanza a questi ultimi. Basti pensare ai servizi streaming come Dazn, che è classificata come Cdn.

Perché equiparare le CDN agli operatori di telecomunicazioni è un rischio?
«Le CDN – scrivono nella lettera rivolta al governo le sei associazioni (sono Business software alliance, Ccia (Computer & communications industry association, Euroconsumers group, Altroconsumo, Internet infrastructure coalition, InnovUp e ITI) – operano trasportando traffico in modo privato, a differenza dei servizi di telecomunicazione pubblici che servono direttamente gli utenti finali». La questione non riguarda soltanto grandi aziende come le piattaforme streaming, ma anche le startup e le PMI che si appoggiano alle Content Delivery Networks.

In un quadro simile le realtà più piccole dovranno affrontare, secondo le associazioni, «costi più elevati e un deterioramento della qualità del servizio per i consumatori». Tutto per colpa di una classificazione impropria. C’è poi un altro nodo che preoccupa gli attori che hanno rivolto un appello a Palazzo Chigi per impedire l’attuazione della delibera: riguarda i «meccanismi di risoluzione delle controversie con gli operatori di telecomunicazioni previsti dall’articolo 26 del Codice».

In altre parole gli operatori telefonici potrebbero imporre agli utenti ulteriori tariffe per la fruizione tramite CDN dei servizi erogati dalle aziende. Così si creerebbe quella che le associazioni hanno definito «una network fee attraverso lo strumento regolatorio».

