Parola d’ordine: imparare dai fallimenti. Se è così, il 2015 è stato un anno dal quale l’industria dei Bitcoin dovrà apprendere parecchio. In un ecosistema in via di maturazione, si stanno affermando attori più solidi, professionali e con alle spalle cospicui investimenti. Allo stesso tempo ci sono stati fallimenti fragorosi. Coindesk ne ha contati 11, causati dai motivi più disparati: mancanza di fondi, aumento della concorrenza e condotte illecite.
Ci sono anche le startup dei furbetti
Se è stata gestione poco oculata o truffa ce lo diranno le inchieste. Di sicuro, per ora, ci sono la bancarotta e gli investitori incarogniti. Perché anche le criptovalute hanno i loro Bernard Madoff.
GAW Miners – La società non opera più dall’aprile 2015 ed è sotto la liente dalla SEC, la Consob americana, per truffa. GAW Miners aveva puntato su una propria criptovaluta, i paycoin. Più centralizzata rispetto ai Bitcoin, era stata venduta come un investimento meno volatile: il suo valore non sarebbe sceso al di sotto dei 20 dollari. Promessa non mantenuta, alla quale avevano creduto 10 mila investitori. La SEC accusa il ceo Josh Garza anche di aver applicato alle monete virtuali il vecchio schema Ponzi. La società assicurava agli investitori un ritorno immediato in criptovaluta. Peccato che la capacità di estrazione reale fosse molto al di sotto di quella sbandierato. Gli investitori pagavano (poco) per ritorni alti e immediati. Il gioco funzionava solo all’inizio (cioè per i nuovi investitori). Invogliati dai primi guadagni, ecco arrivare nuovi fondi. Ma questa volta senza ricevere nulla. Così GAW Miners avrebbe intascato 19 milioni di dollari. Fino al crollo del castello di carte.
Mining ASIC Technologies – La società era chiacchierata da tempo, a causa del suo business model: per la sua attività di mining chiedeva una commissione pari al 35%. Già alla fine del 2014, nei forum specializzati si faceva strada la parola “truffa”. Fino alla bancarotta di quest’anno.
CoinTerra – Altra società di mining, altra bancarotta. CoinTerra non è riuscita a saldare i pagamenti pendenti con investitori e creditori. In parte, dovrebbero essere ripagati attraverso la liquidazione degli asset di CoinTerra, valutati tra i 10 e i 50 milioni di dollari.
Alla fine decide sempre il mercato
A volte si chiude per truffa. Più spesso è il mercato a decidere. L’innovazione è imprevedibile: inverte l’equilibrio tra vincitori e vinti. Così, nel giro di un anno, anche un round milionario può diventare carta straccia.
Brawker – Brawker era una piattaforma, lanciata nell’aprile del 2014, che consentiva agli utenti di comprare prodotti in Bitcoin. È stata vittima dell’evoluzione: non servono intermediari in un mondo dove i pagamenti in Bitcoin sono sempre più diffusi.
Buttercoin – Il marketplace si è sciolto come il burro dopo aver incamerato, nel 2013, investimenti per 2,1 milioni di dollari. Ha chiuso i battenti ad aprile per non essere riuscito – secondo le parole dei suoi stessi fondatori – ad attrarre l’interesse dei Venture Capital.
Yacuna – Un altro exchange chiuso nel 2015. Yacuna, nel tentativo di aumentare i volumi, aveva anche rinunciato, lo scorso febbraio, alle commissioni. Ha resistito fino a novembre. “Abbiamo annullato le commissioni perché crediamo nel potenziale della Blockchain. Tuttavia, una crescita sotto le aspettative ci porta alla decisione di chiudere”.
Le buone idee non bastano
L’orizzonte cambia in fretta: le società che parevano cavalli di razza si rivelano dei brocchi. Non resta che proclamare una resa incondizionata.
Bonafide – La startup aveva ottenuto un finanziamento da 850 mila dollari nel 2014. Ci avevano puntato, tra gli altri, anche Blockchain Capital e Quest Venture Partners. Meno di un anno dopo è fallita. Il suo obiettivo era quello di dare una faccia (e una reputazione) a chi faceva operazioni in Bitcoin, mettendo a disposizione servizi quali lo scambio di moneta e la gestione del portafogli. L’idea puntava tutto su un mercato customer forte. Che ancora non c’è.
37coins – La startup si proponeva di gestire i wallet tramite sms. Un’idea nata per intercettare i mercati dove dominano (e domineranno) gli smartphone low-cost. Quella di 37coins è una resa totale, che cita difficoltà tecniche “insormontabili”. “Nonostante le migliori intenzioni, non siamo in grado di fornire un prodotto di qualità sufficiente”.
L’equilibrio è (sempre) precario
Quando la via è accidentata, basta un’inezia per finire fuori strada. Come un cambiamento regolatorio o gli screzi tra i fondatori.
BTC Guild – Si trattava di un mining pool, cioè una società nella quale gli utenti si organizzano per “chiudere” un blocco e ottenere Bitcoin in proporzione al lavoro svolto. I fondatori hanno imputato il fallimento all’approvazione della BitLicense. Si tratta di una licenza che devono possedere le società che operano nel mercato delle criptovalute e hanno sede a New York. Una motivazione contraddittoria: la BitLicense non si applica ai pool.
Harborly – La piattaforma di scambio di Bitcoin ha chiudo in agosto. Il ceo e co-fondatore Connor Black ha motivato la scelta con lo sviluppo di un progetto, nato all’interno della società, da far crescere in fretta. “Al momento – ha scritto – non abbiamo risorse sufficienti per entrambi”.
Swarm – Aveva l’ambizione di sposare crowdfunding e criptovaluta. Chiunque poteva finanziare i progetti acquistando una SwarmCoin. La ricompensa sarebbe arrivata dalle monete supplementari provenienti da tutte le campagne finanziate. Swarm non ha retto ai dissidi tra i fondatori, allo sfaldarsi del team (diviso sulla possibilità di rendere il software open source) e da un investimento nell’acceleratore Techstarts costato 200 mila dollari.
Paolo Fiore
@paolofiore