Nel film The Social Network c’è una scena in cui un giovanissimo Mark Zuckerberg discute animatamente con i fratelli Cameron e Tyler Winkeloss che gli hanno fatto causa per furto di proprietà intellettuale. Con loro c’è un’altra persona che difende gli interessi di Zuck, è un consulente di una delle più importanti law firm americane: Orrick. Per la cronaca la causa termina con $65 milioni che finiscono nelle tasche dei fratelli, a fronte di una richiesta di $600 milioni. Zuckerberg ha affidato il futuro della sua creatura nelle mani di un’azienda che ha una storia incredibile da raccontare: «Orrick è nata a San Francisco nel 1863. Siamo la società privata più longeva della città dopo Levi Strauss. Abbiamo fatto parte del gruppo di investitori che ha finanziato il Golden Gate Bridge e avuto la fortuna di essere protagonisti del boom della Silicon Valley fin dagli esordi», racconta a StartupItalia! Raul Ricozzi, 45 anni (nella foto sotto), che si è occupato della nascita e dello sviluppo della sede italiana di Orrick (a oggi ha 26 uffici nel Mondo).
Da Stripe e Nest
Oltre a Facebook, sfogliando il portfolio dei progetti innovativi che hanno chiesto consulenza all’azienda americana, troviamo vere big del tech: Stripe, Pinterest, Quora, Sofi, Baidu e Nest la cleantech acquistata da Google per 3,2 miliardi: «Nest è un buon esempio di come supportiamo le startup. Essendo uno studio legale, seguiamo le società hitech in tutte le fasi della loro vita, dalla costituzione fino all’exit o all’IPO». Oggi Orrick è molto attiva anche nel nostro Paese e si focalizza perlopiù sull’internazionalizzazione soprattutto verso il mercato americano, di diverse startup italiane.
Come conquistare i venture americani
Abbiamo incontrato Ricozzi, mentre era ospite di NaStartup, la “palestra” delle startup campane. Ha tenuto un corso su come aprirsi al mercato USA e conquistare i venture americani. Antonio Prigiobbo, l’ideatore di NaStartup, spiega perché la visita del consulente di Orrick assume un significato particolare per la community napoletana. «NaStartup – ha spiegato – ha accelerato diverse startup che da campioni italiani vogliono e possono diventare campioni internazionali. È nostro compito e impegno sviluppare periodicamente strumenti per tutti. Le nostre esigenze sono opportunità per altri, le esigenze di altri sono opportunità per noi».
Come si internazionalizza una startup
Internazionalizzare significa muoversi verso cinque direttive: 1) capire quali sono i mercati più promettenti 2) entrare in contatto con gli investitori di quei Paesi 3) ricercare partner industriali 4) assumere top manager per fare il grande salto. E infine 5) aprire nuove sedi. Tuttavia, non bisogna commettere alcuni errori di valutazione. Ricozzi spiega quali sono: «Molti sperano di realizzare un prodotto e in sei mesi scalare su altri mercati. È più fisiologico avere un percorso di maturazione in Italia, poi in Europa, prima di sbarcare in Usa o altrove. In due, tre anni, si testa la solidità del business, si correggono gli errori e si aumenta il proprio bacino di clienti. Quando si realizzano questi step, internazionalizzare e adattare il prodotto alle esigenze dei consumatori di altri Paesi diventa più semplice». Il consulente di Orrick svela quali sono le caratteristiche che una startup deve avere per fare fortuna sul mercato statunitense: «Gli investitori americani cercano sempre meno piattaforme di aggregazione e sempre più idee in grado di risolvere un problema che oggi non ha una soluzione adeguata sul mercato. Per attirarli bisogna avere una traction, un prodotto universale e una buona base clienti in Italia. Senza queste tre caratteristiche diventa una missione impossibile avere un appuntamento».
Le startup americane e la sede in Delaware
Ricozzi fa distinzione tra una startup italiana che vuole commercializzare un prodotto in Usa e una che invece intende cercare dei finanziatori: «Nel primo caso si costituisce una società in Delaware che può essere gestita dalla startup italiana. Nel secondo caso, è l’azienda costituita in Delaware a dover controllare il business in Italia». Ma perché proprio in Delaware? Nello Stato federato americano situato sulla East Coast, hanno sede legale il 60% delle 500 aziende migliori al mondo secondo Fortune. E moltissime startup scelgono di costituirsi proprio qui: «Non è solo per un fatto fiscale, anche se le tasse sono più basse che altrove (intorno al 9% sul reddito lordo, ndr). In Delaware c’è un sistema legale che si adatta perfettamente alle esigenze delle aziende hitech e i giudici sono molto competenti in materia».
Come trovare investitori americani
Ricozzi offre qualche dritta per colpire l’attenzione dei più importanti venture americani quando si è in Usa a fare fundraising. Spiega che per avere un primo contatto in genere si parte dai sistemi più semplici. Si manda una email e si riceve quasi sempre una risposta, anche se spesso è negativa. Per ridurre la percentuale di bocciature consiglia di studiare.
Occorre capire, innanzitutto, se quel fondo investe in un certo tipo di business e tenere anche conto di fattori esterni alla startup
«I fondi di venture hanno una durata di 10 anni. Nei primi cinque scommettono su nuovi business, negli altri di solito confermano gli investimenti fatti sulle prime startup. Poi segue una fase in cui non investono più, ma fanno fundraising per creare un nuovo fondo. Una startup potrebbe anche essere interessante per il venture, ma non trovarsi nei tempi giusti».
Il sistema più semplice per arrivare al “cuore” di un venture, tuttavia, è un altro. Come essere introdotti da soggetti che sono stimati dal fondo, come altri startupper che ne sono già parte. Oppure essere “raccomandati” da un incubatore, o consulenti che hanno la giusta credibilità per consigliare al venture su chi puntare. «Poi c’è la strada degli eventi. È efficace ma richiede per lo startupper una presenza sul posto, con tutti i costi che ne derivano».
In Italia manca una cultura aziendale nelle università
Alla fine della nostra chiacchierata parliamo di cosa manca ancora all’ecosistema delle startup italiano per competere con quelli internazionali. Ricozzi vede una maggiore maturità degli attori che ne sono parte e individua un nodo che per lui andrebbe sciolto per dare una svolta al sistema.
La startup perfetta viene fuori da una simbiosi tra il mondo accademico e quello tecnologico
«Un buon ecosistema lavora a stretto contatto con i centri di innovazione. Solo così le competenze tecnologiche possono essere unite a quelle economiche, di marketing e formare team eterogenei. Bisogna portare la cultura aziendale all’interno delle università».
Ricozzi parla di emulazione, della necessità cioè che alcune startup nell’ecosistema sappiano fare un salto di qualità e diventare dei modelli da seguire: «C’è una prima fase che potremmo definire di “protagonismo”, in cui alcune startup crescono più di altre per alimentare lo spirito emulativo. A queste deve seguire poi una fase diversa, in cui si punta tutto sulla collaborazione tra gli attori che sono parte dell’ecosistema. Senza questo contesto associativo, è difficile far crescere dei buoni business».
Occhi puntati su NTSG e QOOWEAR
Ricozzi ci svela i nomi di due startup italiane che stanno per sbarcare sul mercato americano. Una è NTSG, società che ha sviluppato un brevetto, un sistema a fibre ottiche che misura eventuali deformazioni, vibrazioni o sbilanciamenti su gallerie, pozzi di trivellazione, edifici. Oppure Qoowear, startup di tessuti che crea abbigliamento hitech, che sta per depositare il brevetto di una nano fibra per riscaldare l’abbigliamento con un sistema di sensori e una batteria: «In Silicon amano il Made in Italy come capacità innovativa. Sanno che abbiamo tantissimi talenti in Italia. Ma l’inventiva non basta. Come tutti i venture più che idee buone, cercano investimenti con dei ritorni favorevoli».