Sotto accusa gli articoli 11 e 13. C’è il rischio che l’informazione di qualità sparisca dalle piattaforme social. E persino che il tentativo di remunerare il giornalismo finisca per impoverirlo economicamente
Domani il Parlamento Europeo vota sulla direttiva sul copyright, nota – con semplificazione giornalistica – come “link tax” (leggila qui). Sono due gli articoli che hanno scatenato dibattito: il numero 11 e il numero 13. Tra i contrari molti accademici e anche il “padre” del web Tim Berners Lee. E pure Wikipedia si schiera.
Le norme contestate
“L’articolo 11 stabilisce che gli editori possano chiedere un compenso a chi pubblica notizie o snippet anche in forma di link o citazione” sintetizzano i firmatari di una petizione che sta girando sul web in queste ore, tra cui i parlamentari Alessandro Fusacchia e Luca Carabetta, Massimo Banzi (inventore di Arduino), il radicale Marco Cappato, Paolo Barberis (fondatore di Dada e Nana Bianca). “Questo rende difficile e costoso curare un’aggregazione di notizie. Condividere un link al sito di un quotidiano potrebbe richiedere un accordo formale con quel quotidiano, e un pagamento”.
“L’art. 13 rende le piattaforme online responsabili per eventuali violazioni del diritto d’autore dei contenuti che ospitano – proseguono i firmatari – Questo costringerà le piattaforme internet a creare sistemi di censura preventiva del materiale condiviso in rete. Siccome costerebbe troppo far fare questi controlli a degli esseri umani, il lavoro sarà affidato ad algoritmi. Saremo censurati, e i censori saranno macchine”.
Il senso della riforma
Cerchiamo di capire meglio la ratio della direttiva. L’idea alla base è quella di tutelare il lavoro intellettuale, portando nelle casse degli editori una parte dei guadagni generati dai cosiddetti “over the top”. Siti come Google News e Facebook fanno traffico e prolungano la permanenza sulle proprie pagine – una metrica direttamente monetizzabile – grazie ai contenuti provenienti da piattaforme editoriali. Perché non pensare a una compensazione economica?
Se la direttiva fosse approvata, per riprendere questi contenuti i giganti del web dovrebbero stringere accordi con gli editori che percepirebbero un obolo per ciascuna ripubblicazione. Il timore di chi si oppone è che la semplice richiesta porti le piattaforme a evitare gli editori che lo richiedono. Qualcosa di simile era già accaduto, infatti, in Spagna: dove una vicenda in tribunale aveva spinto Google a “spegnere” Google News, almeno fino a quando gli editori iberici non erano tornati a bussare alla sua porta. Un timore, va detto, che potrebbe anche rivelarsi infondato: non è detto che gli editori decidano di esigere effettivamente un pagamento, memori dell’esperienza spagnola. L’alternativa (rinunciare alla visibilità) potrebbe essere peggiore. Insomma: potrebbe crearsi una norma de facto inapplicata.
La questione della responsabilità potrebbe essere anche più perniciosa. Il compito di assicurare il rispetto del copyright spetta, oggi, a chi pubblica. Alla piattaforma che ospita il contenuto spetta il solo onere di rimuovere, raccogliendo le segnalazioni di violazione: un intervento proattivo, non automatico. La direttiva, se approvata, cambierebbe le carte in tavola spostando l’asse della responsabilità. E dato che effettuare il controllo assumendo esseri umani è costoso, oltre che numericamente improbo vista la mole di post sui social network, si potrebbe decidere di ricorrere a bot: programmi automatici con una sensibilità che, in molte occasioni, si è dimostrata discutibile.
In questo caso, la paura è quella di finire in mano agli algoritmi, in grado di censurare contenuti senza spiegazioni di sorta e possibilità di replica. Anche in questo caso, lo scenario prospettato potrebbe essere fantascientifico: già oggi esistono filtri automatici che agiscono in prima battuta, con i casi dubbi che vengono segnalati a uno staff umano.
Wikipedia oscurata
L’economia della notizia
Il problema di base è che l’informazione di qualità ha un costo, un costo che ci siamo abituati a non pagare. Se ciò si innesta su un paese notoriamente poco propenso alla lettura, la conseguenza è che i risultati, sul web, si fanno quasi esclusivamente con contenuti di basso lignaggio. Sono questi che “fanno i numeri”, e che, per così dire, pagano gli stipendi. Fare giornali non conviene. Ed esiste una schiera di editori che basano il proprio successo su un assioma molto semplice: le notizie costano, quindi basta copiarle, con buona pace di chi questo mestiere lo fa sul serio.
La discussione sul lavoro giornalistico potrebbe portare molto lontano, e non è questa la sede adatta per affrontarla. I modelli a pagamento – i cosiddetti paywall – non hanno dimostrato una particolare incisività, se non per i grandi marchi anglosassoni che possono contare una reputazione tale da spingere il lettore a sostenerli direttamente. Reggono le testate storiche come il New York Times, o il Guardian, ma nessuno paga per leggere il giornale locale.
Il punto, preso atto che il problema di tutelare una professione essenziale per la democrazia è un caposaldo dei nostri tempi, è non creare un rimedio peggiore del male. E per evitarlo occorre prudenza. Il dibattito pubblico sulla questione è stato scarso. Se ne è parlato poco, e solo a ridosso della votazione. Troppo a ridosso. Forse un progetto come questo meriterebbe un maggiore spazio di riflessione: e magari anche un ripensamento, più in ottica moderna e digitale, dei criteri di scrittura per non rischiare di contrapporre gli uni contro gli altri editori e service provider che, invece, dovrebbero iniziare seriamente a lavorare a stretto contatto per il profitto reciproco. E, mai come in questo caso, collettivo.