Per AgCom i servizi di instant messaging utilizzano numeri telefonici e la rete altrui per offrire i propri servizi. Poi la precisazione: nessuna «misura specifica in capo agli operatori OTT»
Una tassa su WhatsApp. Un obolo sul più popolare servizio di instant messaging. E non solo su WhatsApp, ma anche su Telegram, Messenger e Viber. All’AgCom stanno pensando proprio a questo. Il punto di partenza, l’accusa per intendersi, è che questi servizi utilizzano numeri telefonici e la rete altrui per offrire i propri servizi. Per il Garante delle Comunicazioni, le applicazioni di messaggistica come WhatsApp, Telegram, Messenger e Viber devono pagare: una sorta di pedaggio per l’uso della Rete altrui, insomma. A rivelare le manovre dell’AgCom è La Repubblica, che ha citato come fonte un’indagine sui servizi di comunicazione elettronica. A stretto giro di posta la nota dell’AgCom secondo cui «l’indagine non impone, né avrebbe potuto imporre data la natura conoscitiva della medesima, alcuna misura specifica in capo agli operatori OTT tantomeno oneri economici in capo a soggetti attualmente estranei all’attività regolamentare dell’AGCOM». QUI la precisazione integrale.
Un dato? Secondo l’Economist le compagnie telefoniche hanno perso oltre 50 miliardi di dollari per i mancati introiti causati dalla concorrenza di WhatsApp e simili, ma le perdite potrebbero aumentare considerando l’utilizzo sempre più massiccio di WhatsApp anche per le telefonate VoIp.
Secondo Repubblica, la tassa, l’obolo in questione sarebbe in ogni caso “equo, proporzionato, non discriminatorio”. Non solo. L’idea sarebbe quella di disciplinare lo sfruttamento delle Reti da parte delle chat e anche a colmare un vuoto normativo in materia di privacy. Le applicazioni di messaggistica infatti si basano sul trattamento e sulla vendita a terzi delle informazioni degli utenti, senza alcun assoggettamento alle leggi nazionali.