Raffaele Mattioli è stato un economista capace di stimolare lo sviluppo economico e civile dell’Italia durante tutto il Novecento. È ricordato come il banchiere umanista nel libro edito dal Mulino e scritto da Francesca Pino, consigliere dell’International Council on Archives dell’UNESCO. Il suo ritratto nel nostro longform domenicale
Economista di formazione, Raffaele Mattioli resse dal 1933 al 1972 la Banca Commerciale Italiana, da lui salvata al tempo della Grande crisi e rilanciata verso una nuova espansione con criteri manageriali d’avanguardia. A partire da documenti, scritti e carteggi in gran parte inediti, Francesca Pino ne compone la biografia intellettuale, evidenziandone la grande capacità di stimolare lo sviluppo economico e civile dell’Italia, e di favorirne l’apertura internazionale. A emergere è il costante impegno sociale e culturale come un filo rosso che collega lo studente Raffaele Mattioli, attento a far propri gli insegnamenti di maestri quali Attilio Cabiati, Luigi Einaudi e Benedetto Croce, al convinto antifascista e promotore della vita economica e intellettuale del nostro paese. Un estratto (pp. 375 ss.) da Raffaele Mattioli. Una biografia intellettuale, Bologna, Il Mulino, 2023.
Mentre l’Italia andava migliorando la propria situazione economica, non era mutata nella diagnosi di Mattioli la valutazione del problema storico della carenza di uomini competenti e responsabili, per «la gestione degli affari del paese» nei vari campi. Il banchiere aveva allevato nuove leve non solo nella Banca Commerciale, ma anche nei campi del giornalismo e della politica, muovendosi nella prospettiva dell’alta formazione, con l’Istituto Croce in primis e con il sostegno dato ad altri centri di formazione come l’Ispi di Milano, la Sioi e vari istituti universitari. Un canale importante per l’educazione alla politica e alla democrazia fu quello delle riviste militanti da lui promosse («La Cultura», tra il 1929 e il 1934, «La Nuova Europa», 1944-1946, e «Lo Spettatore italiano», 1948-1956). Una chiara manifestazione del suo pensiero si trova espressa nel 1955, quando Mattioli si sentì tentato di rispondere a un’indagine della rivista fondata da Giulio Andreotti «Concretezza», sui problemi della pubblica amministrazione: pletorica e inefficiente, costituiva (e costituisce) un annoso problema. Preparò una bozza che probabilmente non venne spedita, nella quale di proposito non si soffermava sull’ipotesi di una razionalizzazione organizzativa (che pure, date le dimensioni della azienda-stato, avrebbe permesso «soluzioni più audaci, più drastiche e più economiche»), ma si concentrava piuttosto sugli aspetti politici della questione, mettendo in evidenza le motivazioni che lo Stato aveva per «creare dei posti di lavoro»: «nel suo interesse di amministratore per poter effettuare la selezione dei migliori su una massa più vasta, nel suo interesse di politica economica per ridurre la disoccupazione, e nell’interesse della stabilità sociale per assorbire, fissare ed imborghesire un certo numero di intellettuali più o meno mancati». Restando nel quadro dell’ideologia liberal-democratica, non mancavano «esempi flagranti di sprechi, di abusi, di ingerenze che sarebbero ridicoli se non si giustificassero con una finalità fiscale, con un residuo di mentalità poliziesca o con la necessità di far fare qualcosa a qualcuno». Era vano sperare di estirpare questi mali così radicati, senza una rigorosa riaffermazione degli ideali della nostra res publica, ossia senza una vera e propria riforma morale che riaccenda in tutti i cittadini la coscienza della loro solidarietà con lo stato. Finché c’è l’amministrazione da una parte e gli amministrati dall’altra, il fisco da un lato e dall’altro il contribuente, il governo e i governati, il tutore dell’ordine e della moralità e il minorenne da guidare e correggere, – le riforme dell’amministrazione resteranno benefici parziali o effimeri omaggi a questa o quella ideologia. (Archivio storico di Intesa Sanpaolo, patrimonio BCI, Carte Mattioli, cart. 218, fasc. Note, n. 35).
Come ideologie, aveva passato rapidamente in rassegna l’estremo liberalismo, il comunismo assoluto e l’ideologia liberal-democratica. […] Un passo dalle relazioni annuali di bilancio della Banca Commerciale Italiana sintetizza le sue preoccupazioni per l’immobilismo del paese: Che cosa è dunque successo in Italia dopo il 1962-63? A nostro parere è successo qualcosa di più serio e di meno nocivo che la fase negativa di uno dei soliti cicli economici. Lo slancio produttivo degli anni antecedenti ha urtato contro un complesso di strutture e di infrastrutture antiquate e rigide: le norme tributarie, gli ordinamenti amministrativi, l’organizzazione previdenziale, l’apparato scolastico, tutta l’armatura delle comunicazioni, la rete distributiva, le tecniche dell’agricoltura, gran parte del sistema giuridico e la mentalità stessa di molti imprenditori, son rimasti quel che erano cinquanta e più anni fa, e impacciano l’impeto di rinnovamento e di progresso economico che in tanti settori già si è affermato e tenta di farsi luce (Banca Commerciale Italiana, Raccolta delle relazioni di bilancio 1945-1965, esercizio 1965, pp. 334-335).
Nel tentativo di contrastare queste derive, Mattioli convocò nel 1970 un gruppo di storici contemporanei per formare l’Associazione per lo studio della formazione della classe dirigente nell’Italia unita, allo scopo di raccogliere, vagliare e coordinare le ricerche – in corso e future – prodotte dalle diverse scuole «ideologiche» (cattolica, comunista ecc., che non dialogavano tra loro), e di pubblicare una rivista dal foscoliano titolo «Ipercalisse» (supremo nascondimento), affiancata da una collana di saggi. Fu scelto un motto in greco, Mantis aristos ostis eikazei kalos («È buon profeta chi congettura bene») che correva lungo un cerchio nel quale era riprodotto un ritratto di gusto ottocentesco e romantico del Foscolo. Il libello dell’Ipercalisse era stato composto nel 1815, con l’uso di chiavi e occultamenti di identità, per polemizzare contro l’arrendevolezza degli intellettuali nei confronti dei «Governanti». Alle riunioni domenicali, convocate in casa Mattioli e coordinate da Brunello Vigezzi insieme a Giorgio Rumi ed Enrico Decleva, furono invitati studiosi già affermati, giovani ricercatori e alcuni dei «consiglieri culturali» di Mattioli. Un Quaderno di ricerca promosso dalla Fondazione Rafaele Mattioli per la storia del pensiero economico (Sulla formazione della classe dirigente. L’ultimo progetto di Raffaele Mattioli, Torino, Aragno, 2023, a cura di chi scrive) ricostruisce in dettaglio la vicenda e il network degli studiosi partecipanti all’iniziativa.
Lo spettro delle ricerche si configurava come molto ampio, perché nel termine di classe dirigente erano inclusi tutti coloro che, al governo o all’opposizione, nel parlamento o fuori di esso, muovendosi in una sfera ufficiale ovvero entro spazi propri ed autonomi o addirittura alternativi, abbiano svolto, svolgano, o si preparino a svolgere compiti che vanno al di là del puro esercizio d’un mestiere, d’una professione, d’una funzione, per contribuire invece, nelle forme e nei settori propri ad ognuno (politico, economico, amministrativo, militare, religioso, culturale, sindacale…) a quella che è, di periodo in periodo e ai diversi livelli, la «gestione degli affari del paese». Mattioli era interessato alla finalità «politica» del progetto, per studiare come incanalare verso riforme utili al paese le agitazioni innescate dal Sessantotto. Dopo la sua scomparsa, avvenuta il 27 luglio 1973, il progettò si arenò.
«Mattioli, il volto inatteso della banca ironicamente umana» Così Guido Piovene lo qualificò, congedandosi dalla tappa milanese del suo Viaggio in Italia: «Qui, nella rigorosa difesa dell’interesse e del lucro, le muse attorniano Mercurio». E a proposito della Banca Commerciale osservava: «se è in parte il prodotto dell’ambiente, in parte non minore questo ambiente è stato modellato e animato da lui». La Comit aveva contribuito a formare alcuni tra gli uomini politici più in vista, Malagodi, Merzagora, La Malfa, «egualmente nutriti di spiriti laici e progressistici, aperti alle idee e non pavidi dei fatti». La loro impronta comune era l’ultima eredità del Risorgimento. […] Non senza qualche accento, in taluni, di un radicalismo paradossale in una banca: la sempre risorgente querela contro le scarse capacità di riforma, in senso politico e religioso, della società italiana. Che però in Mattioli si vela di umanesimo e di ironia. Proprio quest’ultima caratteristica, l’ironia, contraddistingueva il banchiere: «un’irriverenza che ricorda Galiani (o, come egli preferisce dire, “di stampo galianeo”), tanto più esplicita quando travolge la sua stessa persona» (citazioni da G. Piovene, Viaggio in Italia, Milano, Mondadori, 1957, p. 79). […] È sorprendente – in un civil servant che sentiva profondamente il valore delle istituzioni – la presenza tanto spiccata di un côté iconoclasta, di un’ironia dionisiaca e carnale, molto abruzzese nel buon senso paesano, napoletana e meridionale nella fantasia, negli esorcismi e nella fedeltà alle radici. Il riserbo da banchiere che si tramutava nel suo contrario, l’impertinenza, era un espediente per sciogliere la tensione e per contenere una natura calda di affetti e di generosità, partecipe delle disgrazie civili della «patria» e orientata sempre alla difesa della parte sana della società: i lavoratori di ogni ordine e grado e, come si legge nella biografia appena edita dal Mulino, gli oppressi da ingiustizie e persecuzioni.