«In Italia manca uno spazio per i docenti. Ci si parla tra colleghi, nel consiglio di classe, ma è difficile confrontarsi con altre persone, di altre scuole, di altre città. Dato che ne abbiamo formati 6mila molte volte apprezzavano la possibilità di scambio». Nei giorni in cui l’attenzione dell’opinione pubblica è rivolta anche alla scuola, vista la ripresa delle lezioni, abbiamo intervistato Viviana Pinto, fondatrice di Discentis, startup edtech di Torino che ha lanciato qualche giorno fa sulla propria piattaforma quello che ha battezzato un social network per docenti. «In passato ho lavorato come freelance per tutte quelle realtà che oggi sono nostri competitor, come WeShool e Mondadori. Il nostro core sta nel prenderci cura dei docenti».

Dalla matematica pura alla passione per la divulgazione
Prima, come sempre, il profilo. Viviana Pinto ha 32 anni e si è formata a Torino dove ha studiato prima matematica pura e poi ingegneria matematica. Con la passione per lo studio, ha poi preso alcuni master come quello in comunicazione della scienza. La sua specializzazione è l’Intelligenza artificiale. «Non quella generativa però. Ho lavorato prima in banca e poi in una società di consulenza tecnologica. Mi sono occupata di progetti finanziati in Europa: in pratica sviluppavo il modello sottostante le reti neurali. E tutto questo aveva applicazioni: ho lavorato su un progetto di mobilità urbana così come sulla modellizzazione della diffusione tumorale».
Gli anni in cui ha cominciato a formarsi sull’AI – dal 2017 in poi – non assegnavano certo a questa tecnologia l’importanza strategica che oggi assume per Big Tech e Stati. «L’AI esiste dagli anni Sessanta. Quel che oggi è cambiato è la potenza di calcolo che abbiamo, per di più a basso costo. Sta succedendo quel che è accaduto a internet. Il problema è che c’è ancora poca formazione a riguardo». L’AI è qualcosa che impara a sua volta grazie ai dati che riesce a elaborare. In un certo senso questa passione per l’apprendimento Viviana Pinto ha preferito coltivarla per migliorare la posizione degli insegnanti in classe.

«Il mio vero mondo è quello della comunicazione della scienza. Ho curato mostre, laboratori ed eventi legati alla tecnologia. E mi piaceva costruire attività per gli studenti, per fare in modo che i più piccoli si appassionassero». Oggi le metodologie della didattica sono diverse, ma con poco tempo a disposizione e molta burocrazia spesso gli insegnanti fanno fatica a formarsi. Discentis offre corsi di formazione specifici sulla didattica. «Ci occupiamo di come stare in classe, di come si integrano determinati strumenti. Proponiamo anche tecniche di narrativa teatrale o didattica ludica. È una cassetta degli attrezzi».
La community di Discentis
Finora Discentis ha raccolto mezzo milione di euro e per il prossimo anno punta a far crescere la propria community sul social network. «Il nostro obiettivo è poi lanciarla a livello internazionale. Ciascun insegnante dovrà parlare la propria lingua e permetteremo a un prof di Caltanissetta di parlare un collega che sta a Londra per confrontarsi. In gergo tecnico, vogliamo costruire comunità di pratica diffuse».

Ma quali sono le metodologie oggi più interessanti per la didattica secondo la fondatrice di Discentis? Il focus è lo studente, ovvero su chi sta imparando. «Perché è lui il soggetto attivo. Sta prendendo piede anche il debate, ovvero il dibattito educativo con squadre che devono sostenere o contrastare una tesi. E poi ci sono anche altri strumenti, come i giochi di ruolo, i libri game, l’enigmistica». Scenario creativo che cozza con una narrazione a volte troppo punitiva quando si parla di apprendimento.
Si prenda l’esempio del divieto degli smartphone in classe che ha caratterizzato questo inizio di anno scolastico. «Creare spazi di non connessione costante è una buona cosa e bisognerebbe farlo anche con gli adulti». Ma la responsabilità non è soltanto della scuola. «Penso alle piattaforme che tollerano i minori quando dovrebbero fare rispettare i limiti di età per gli iscritti. Lo smartphone è uno strumento, così come lo erano negli anni 2000 internet e il computer».
Limiti dovrebbero esserci secondo l’imprenditrice. «Penso ai più piccoli, ma mi chiedo che senso abbia vietarlo alle superiori, quando gli studenti stanno per diventare adulti, pronti al voto». Senz’altro l’impatto sulla salute mentale di social e device terrà banco nei prossimi anni e sarà interessante capire se le ricette andranno oltre il poco efficace proibizionismo.