Finché racconti non perdi la speranza di essere di aiuto. È qui, incisa dentro la parola racconto, la forza dei ragazzi e delle ragazze di Animenta, Raccontare per sensibilizzare, progetto lanciato da un gruppo di giovani per stare accanto in modo nuovo – attraverso le parole, appunto – a quanti stanno affrontando un disturbo del comportamento alimentare, una ferita davvero grande nel nostro Paese (su 100 adolescenti, ne soffrono 10 e tra questi 2 in forma grave). Animenta è un luogo dove le parole fluiscono libere, rispettose, fresche e curative, dove ogni parola è ascoltata perché ogni persona è accolta e ogni giudizio bandito, spiega Aurora Caporossi, 24 anni, laureanda in Comunicazione e Marketing alla Sapienza di Roma, che a pochissimi mesi dalla fondazione di questa associazione no-profit è stata inserita da Forbes tra gli italiani under-trenta più interessanti che stanno innovando nel sociale.
Animenta, la storia di Aurora Caporossi
Animenta non poteva che nascere da una storia, la sua, appunto, che a 16 anni smette di mangiare. In qualche modo già il nome, Animenta, racconta proprio di lei.
«Animenta è l’incontro tra l’anima e la mente, le due dimensioni che non ci viene istintivo associare ai disturbi del comportamento alimentare, perché purtroppo una narrazione stereotipata ormai radicatissima continua ad accomunarli quasi esclusivamente al corpo. Quando stavo male, mia mamma mi diceva che i miei occhi avevano perso il sorriso, la gioia, la freschezza. Ecco, ho scelto di chiamare questo progetto Animenta anche perché vorrei che sprigionasse freschezza, la freschezza della menta».
Aurora Caporossi ritrova il gancio con la vita a diciott’anni, grazie alla danza e a una terapia seguita in un centro pubblico nella Capitale. Oggi lavora 24 ore su 24 alla sua giovane creatura. « Il nostro progetto è nato anche per dare informazioni sugli specialisti, i centri, le strutture a chi soffre, ai loro famigliari, agli insegnanti: purtroppo in Italia non esiste una rete di servizi omogena, per cui anche quando si decide di farsi aiutare è difficile individuare chi può farlo».
Animenta porta le sue storie nelle aule – dalle elementari alle università – soprattutto perché la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze si ammala proprio durante la scuola e raramente genitori e insegnanti ne colgono i segnali, e proprio dentro le aule accompagna i nutrizionisti, i dietisti, gli psicologi, gli psichiatri, i personal trainer connessi con l’associazione: al fondo degli incontri, anche quando il dialogo prende la via dei temi più strettamente alimentari, c’è la consapevolezza di sé, insieme alla certezza che gli altri sono essenziali nel percorso della propria realizzazione.
Disturbi alimentari, come scegliere le parole giuste
La visione innovativa di Animenta ha appassionato anche l’attrice Ambra Angiolini, che nel libro InFame ha reso pubblico il suo estenuante corpo a corpo con la bulimia e che, alleatasi con i giovani volontari, li ha portati a teatro in Lettera al corpo, progetto corale di musica, danza e recitazione in cui ciascuna lettera rappresentata evocava la storia di una ragazza del gruppo. «La storia di ogni persona che soffre per un disturbo alimentare è una storia unica e noi, in tutte le esperienze che creiamo, puntiamo a riprodurre, rispettandola, questa unicità. Purtroppo c’è, invece, una narrazione su queste tematiche piatta, riduttiva, stereotipata su pochi cliché: quello con il cibo è, al contrario, un rapporto davvero molto articolato, la superficie visibile di un problema profondo, che nelle sue dimensioni sotterranee è immenso e delicatissimo. Scegliere le parole giuste per rappresentarlo in maniera adeguata diventa allora cruciale: il contrario allontana, giudica, respinge, fa sentire le persone non comprese, ancora più sole di quanto già sono. Tra le parole che respingono ci sono certamente anoressico o bulimico usati come aggettivi per le persone: il verbo essere che li precede segna l’identità e dunque riduce le persone al loro disturbo. Ma le parole allontanano anche quando sono pronunciate, paradossalmente, per sostenere. Quando soffri di anoressia, un piatto di pasta diventa la tua grande fobia, il più grande cattivo della Disney. Impieghi cinque ore a finirlo, e magari non ci riesci neanche. Ecco, se chi ti sta accanto, te lo porge e ti dice “mangialo dai, è solo un piatto di pasta”, ti sta allontanando. Noi non dobbiamo permette alle parole di isolare». E continua: «Come stai è, invece, un’espressione che apre alla richiesta di aiuto. Spesso la chiave è persino il silenzio, il sedersi su un divano, accanto a chi sta male, senza necessariamente la pretesa di capire».
Le storie e le parole di Animenta fluiscono e arrivano anche nelle case, attraverso Let’s Eat Together, incontri su Meet in cui si condividono i momenti del pranzo e della cena: del resto l’associazione è nata durante il lockdown, quando proprio nelle case era bloccata anche la vita delle tante persone con un disturbo del comportamento alimentare. «Io mi ritrovavo spesso in cucina con mia madre e a volte venivo presa del terrore che tornasse un passato che mi faceva paura. Da quel periodo portavo nel cassetto il sogno di fare qualcosa per dare a chi soffriva l’aiuto su cui io non avevo potuto contare. E Animenta è nata».