Chi non è dalla parte delle donne, oggi? Il fioccare ovunque delle mimose insieme ai buoni propositi di parità, le panchine rosse e, lungo le facciate dei palazzi, i fasci di luce rosa, le conferenze sui diritti che mancano, i premi alle ragazze che eccellono sono uno spiegamento raro per una ricorrenza. Il rischio che rappresenti rumore di fondo e che finisca per coprire le ingiustizie di genere, i gap dolentemente tuttora aperti, le asimmetrie dei diritti e delle opportunità è reale. Ogni anno ci si chiede se 8 marzo abbia ancora senso.
Di celebrare l’8 marzo non si può fare a meno, perché 8 marzo è un simbolo e i simboli, quando incrociano il momento propizio, scatenano i cambiamenti: già ogni occasione mancata di fare circolare le richieste di uguaglianza di diritti e opportunità è un’occasione mancata per farle accadere. Del resto, l’8 marzo non è la festa della donna, ma la Giornata internazionale dei diritti delle Donne, come fu chiaro che dovesse essere nelle intenzioni già della sua prima volta, l’8 marzo 1908, negli Stati Uniti, quando le donne scesero nelle strade a reclamare, nel primo Woman’s Day della storia, il diritto di votare. Da quel momento, l’8 marzo è rimbalzato tra Paesi nel mondo, incarnandosi in realtà molto diverse e propagandosi in maniera informale fino al dicembre 1977, quando l’Assemblea delle Nazioni Unite ne formalizzò in qualche modo il debutto sul calendario internazionale. L’8 marzo 1945, grazie all’Unione Donne Italiane, fu celebrata la prima giornata dedicata alle donne nell’Italia libera; a Roma, l’8 marzo 1972 diverse migliaia di donne sfilarono in quella che viene ricordata come la prima manifestazione femminista del nostro Paese.
Quanto resta da fare è sotto gli occhi di chiunque
Da allora, molti progressi sono stati fatti, se oggi una donna è Presidente del Consiglio e una donna è la leader del principale partito di opposizione. Ma moltissimi sono ancora da conquistare. Certo, oggi sembriamo tutte, tutti più consapevoli che non potrà mai essere in equilibrio, e neppure sostenibile e neanche prospero un mondo dove le due metà del cerchio sono asimmetriche, dove la metà netta di chi lo abita gode di una frazione appena dei diritti della metà dominante che ha sempre deciso per l’intero, decidendo in questo modo i destini del suo genere e anche quelli dell’altro. Un ordine del mondo così sbilanciato, a favore dell’uno, a sfavore dell’altra, genera conseguenze perverse, nocive, malate, a partire dai femminicidi – una morte ogni tre, quattro giorni -, dalle violenze, dagli stupri. E poi c’è il bivio drammatico tra professione e figli, un aut aut definitivo che solo chi è donna attraversa, la maratona perpetua del doppio carico di lavoro – in casa e fuori -, l’incredibile realtà degli stipendi femminili, più bassi pur a parità di impegno e risultati. Per non dire della totale assenza di donne o quasi ai tavoli che contano davvero, in politica come nelle imprese: le amministratrici delegate sono 2 ogni 100.
In nome di Giulia Cecchettin
Oggi, 8 marzo 2024, c’è poco da festeggiare. Ma da ribadire sì. La Giornata internazionale dei diritti delle donne serve a dire che la parità è tanto lontana, ma che è proprio la parità la strada da prendere. E che le donne, esigendola, sono dalla parte giusta. Ma occorre che la parità smetta di essere una “cosa di donne”. Soprattutto, si deve smettere di aspettarsi che, poiché il problema l’hanno le donne, siano le donne a doverlo risolvere. Le discriminazioni vissute dalle donne non sono un problema delle donne, sono un problema di tutti, degli uomini in primo luogo. E chiamano chiunque a mettersi alla testa del cambiamento. Lo disse con chiarezza abbagliante Gino Cecchettin, padre di Giulia, uccisa dal fidanzato lo scorso novembre, a proposito dei femminicidi, che in questo 8 marzo per lui più determinante di tutti quelli venuti prima sta rinnovando la sua testimonianza: “Mi rivolgo agli uomini. Noi per primi dovremmo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. La nostra azione personale è cruciale per rompere i cicli della violenza”.
Furono le parole di questo padre che per la prima volta parlò direttamente agli uomini, insieme alle parole di una sorella, che parlò alle donne, a fare da scintilla alla più grande manifestazione di piazza mai fatta in questo Paese in nome di una ragazza uccisa da un uomo e di tutte le donne vittime di violenza. Era Roma, era il 25 novembre. Era un altro giorno simbolico come oggi, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza di genere, e per la prima volta nei cortei sfilavano anche tanti uomini. Mai un 25 novembre era stato prima così potente e aveva espresso tanta voglia di cambiamento.
Ora tocca all’altra metà del mondo
Le donne sono cresciute, moltissimo, e lo stanno ancora facendo. Ce l’hanno messa tutta. Stanno imparando a proteggersi dalle violenze, a confrontarsi con chi ha il potere senza assumere una posizione subordinata, a fare dell’autonomia economica il mattone numero uno della propria libertà esistenziale. È una scalata, è una marcia, è anche una rivolta. Mai così tante donne sono state consapevoli e in rivolta come in questi tempi.
Ora tocca agli uomini mettersi al centro del cambiamento, e interrogarsi sulle due metà ancora così tanto asimmetriche, sul loro essere asimmetriche già alla radice, perpetuate come sono state, le asimmetrie, prima di oggi per millenni. Non vogliamo mimose, ma cambiamenti. Adesso tocca agli uomini farsi le domande, a partire da sé, ciascuno singolarmente, per ritrovarsi, poi, nella più grande storia comune dei simili. Che, in fondo, è quanto hanno fatto le donne nell’ultimo secolo. Se si volesse liberare questo 8 marzo dai luoghi comuni delle mimose, delle luci rosa e dei buoni propositi, occorrerebbe che si muovesse da qui. Da una speciale giornata di ripartenza, di ricostruzione. Dal tutto, dalla scelta di tutti e tutte insieme, per dire che siamo pronte, che siamo pronti.