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È potuto accadere anche grazie allo sport. Anzi, è stato proprio lo sport paralimpico a dare un impulso fondamentale per migliorare la comunicazione e i comportamenti sulla disabilità e tutto quanto vi gira intorno. All’interno del movimento paralimpico le riflessioni sul linguaggio sono state condivise e anche i termini corretti hanno iniziato a circolare, per poi riflettersi in ogni altro ambito.

Prima della rete, il luogo dove erano insieme tante persone con disabilità con familiari, volontari, associazioni e organizzazioni, amici e conoscenti da tanti Paesi del mondo sono stati infatti i Giochi e comunque gli eventi paralimpici.

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In particolare, nelle edizioni degli ultimi venti anni del secolo scorso cominciarono a essere distribuiti, specie a uso di coloro che si occupavano di comunicazione, opuscoli di vari Comitato paralimpici (ricordo a Barcellona 92 quelli canadese, brasiliano, australiana, per esempio) che invitavano a utilizzare termini più corretti in modo da evitare discriminazioni proprio a partire dalle parole usate.

 

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Quelle prime riflessioni partivano proprio dal concetto di valorizzazione della persona prescindendo dalla condizione, che non veniva nascosta, ma passava in secondo piano di lettura, e di abilità, proprio perché lo sport la metteva in luce in maniera prepotente.

 

Questo accadeva ben prima che la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle Persone con Disabilità, dal 2009 anche legge dello Stato italiano, indicasse anche il linguaggio corretto, utilizzando proprio quei termini nati dalle riflessioni dei decenni precedenti alla sua stesura.

Dal 2016 il Comitato Paralimpico Internazionale ha eliminato i termini “disabile” e “disabilità” dalle proprie comunicazioni, mostrando quanto questi non esprimano la realtà quando si parla di sport.

 

Per estensione, però, lo stesso concetto vale per l’arte e molti altri settori della società. Anzi, in assoluto, questo ci permette entrare in una “società paralimpica”, dove l’attenzione sia sempre più sulla persona e le sue abilità, in qualunque condizione, che diventa così anche risorsa per la comunità. Le motivazioni riprendono quanto abbiamo scritto negli articoli precedenti.

 

Questa scelta parte dagli anni precedenti e mette in partica le riflessioni fatte da Phil Craven, Presidente del Comitato Paralimpico Internazionale , prima di Londra 2012, considerata la Paralimpiade della svolta nella percezione dello sport paralimpico in particolare e della disabilità in generale.

 


 

“Non guarderemo più lo sport nella stessa maniera, non guarderemo più la disabilità nella stessa maniera”.

 

Sebastian Coe, uno dei più grandi mezzofondisti della storia e allora presidente del Comitato organizzatore dei Giochi Olimpici e Paralimpici (era la prima volta che accadeva vi fosse un unico Comitato organizzatore, scelta sempre seguita poi nelle edizioni che seguirono quella britannica), usò queste parole nella Cerimonia di chiusura, fra le canzoni dei Coldplay e di Rihanna.

Come è stato scritto all’inizio di questo percorso e ribadito poi, riguardo le categorie e i gruppi a rischio discriminazione il linguaggio e la maniera di comunicare non sono solo forma, ma diventano sostanza. Sempre. In questo senso è da leggere l’intervento che Craven fece prima della Cerimonia di Apertura dei Giochi Paralimpici di Londra

 

“Non usate la parola disabile e disabilità. Qui vedrete solo grandi abilità”

 

Luca Pancalli, presidente storico del Comitato Italiano Paralimpico, lo condivise, ma avvertendo: il linguaggio che diventa sostanza non deve nascondere la realtà. In questo riprendendo il significato del concetto di disabilità secondo l’Icf (International Classification of Functioning, Disability and Health, che è il sistema di classificazione della disabilità sviluppato dall’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità), che, in estrema sintesi, riguarda l’interazione della persona e della sua condizione di salute con l’ambiente.

 

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“Abbiamo sempre parlato di atleti paralimpici. Anche quando abbiamo modificato, poco dopo l’inizio del nuovo secolo, il nome del Comitato Paralimpico: prima era Federazione Sport Disabili. A me piace naturalmente dire persone con disabilità o persona disabile e non utilizzare l’aggettivo al posto del sostantivo: usare disabile significa confondere una parte con il tutto. Sono convinto che la terminologia sia importante e che riesca a rompere delle barriere culturali che diventano anche sociali. Detto questo, è chiaro che la sostanza debba prevalere sempre. La disabilità fa parte della realtà e non è nascondendola che si risolvono i problemi. Non mi vergogno della mia disabilità. Persone che usano il termine disabili hanno atteggiamento rispettosi: questo trovo sia fondamentale”.

 

Insomma: non farsi fagocitare dal linguaggio, anche se attraverso questo si abbattono barriere che da culturali diventano sociali. Pancalli, in carrozzina dopo l’incidente per una caduta da cavallo quando era Nazionale Juniores di pentathlon moderno, ha vissuto da atleta prima e dirigente poi tutte le edizioni da quella di Seul ’88.

 

“Ripeto: meglio persona con disabilità. Ma sullo sport il termine paralimpico è quello giusto: fa capire anche meglio le prestazioni. Non bisogna aver paura delle differenze: arricchiscono l’umanità”.

 

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La definizione del termine paralimpico

Proprio grazie agli stimoli e al supporto del CIP la Treccani ha fra l’altro inserito il lemma “paralimpico” all’interno del suo dizionario, dandone una accezione più ampia rispetto a quella indicata dal Comitato Paralimpico Internazionale, che indica di utilizzare questa parola solo per sport e sportivi legati alla Paralimpiade.

 

paralìmpico (o paraolìmpico) agg. e s.m. [der. di para(o)limpiadi] (pl. m. –ci). – 1. agg. a. Relativo alle paralimpiadi e agli atleti che vi partecipano: titolo p., campione paralimpicob. Per estens., relativo a una persona disabile che pratica una disciplina sportiva. 2. s.m. (f. –aa. Atleta che partecipa alla paralimpiadi. b. Per estens., persona disabile che pratica una disciplina sportiva: una p. dello sci.

 

In Italia, giustamente, si indica invece di utilizzarla per tutti gli sport che possono praticati da chi vive una condizione di disabilità, anche se non presenti nel programma dei Giochi, e per ogni persona con disabilità che pratica una attività. Una scelta doverosa proprio nella direzione di eliminare ogni possibile discriminazione e per questo molto condivisibile.

 

L’indicazione del Comitato Paralimpico Internazionale è meno estensiva: per tutto ciò che non è legato ai Giochi Paralimpici si indica di sostituire la parola “disability” con “impairment”, termine che in italiano e in altre lingue non anglosassoni non ha una traduzione precisa con il significato dato in inglese.

In sostanza: non utilizzare “disabilità” sostituendola con quella che può essere tradotta come “menomazione”. In inglese questo può funzionare, ma in italiano la parola “menomazione” è peggiorativa rispetto a “disabilità”. Per questo, la locuzione “atleta con disabilità”, se si vuole usare questa dicitura, risulta migliore di quella “atleta con menomazione”. Il termine “paralimpico” è però la scelta migliore, per gli atleti allargandone il significato anche a coloro che non hanno mai partecipato o non intendano partecipare a una Paralimpiade, come invece vorrebbe Ipc, restringendo però troppo il campo.

 

L’eliminazione del termine “disabilità” e tutto ciò che ne deriva e vi è collegato mostrata dallo sport è un passo ulteriore nella modifica del linguaggio e nella costruzione di una società diversa, più accogliente e meno discriminatoria.

 

(6. continua)