È stato il vincitore dell’ottava edizione del premio Business Angel dell’anno, l’evento italiano dedicato all’angel investing organizzato dal Club degli Investitori. Carlo Tassi per più di 25 anni ha fatto l’imprenditore poi, nel 2014, ha ceduto l’azienda di famiglia, intraprendendo un’intensa attività di investimento in startup che lo ha portato a finanziare circa 300 aziende. Il suo primo investimento, in Kippy, ha generato una exit che ha ripagato tutti gli investimenti effettuati nei successivi 9 anni. Dal 2021 è presidente di Italian Angels for Growth, dove continua a supportare l’ecosistema delle startup italiane. Lo abbiamo intercettato per farci raccontare che cosa è cambiato negli ultimi anni in questo ecosistema che ha preso una forma sempre più delineata.
Carlo, come ti sei avvicinato al mondo dell’angel investing?
Per 25 anni ho fatto l’imprenditore, poi ho ceduto l’azienda di famiglia e mi sono dedicato a un’intensa attività di investimento in startup e all’angel investing che è iniziato per curiosità e con tanta voglia di mettermi in gioco. Non sono mai stato creativo in ambito prodotto e business, piuttosto più interessato alla strategia. Sono entrato in contatto con centri di sviluppo delle startup che erano incubatori più che acceleratori. Mi piacevano i settori dell’energia e dell’ambiente e pensavo: “Perchè non diventare investitore?”. Così mi sono concentrato sull’attività di angel investing e altri strumenti che mi consentissero di diversificare il portafoglio.
Che cosa ti piace di più del tuo lavoro?
In questi 10 anni ho imparato a concentrarmi sulle persone, che sono l’unica cosa che fa veramente la differenza, e l’ho imparato facendo molti errori. Ogni giorno apprendo qualcosa di più per riuscire a farla meglio. Kippy è stata la prima startup in cui ho investito, costituita nel 2013 e venduta nel 2023.
Ti aspettavi di essere nominato Business Angel dell’anno?
Delle 4 persone che sono arrivate in finale (ndr Benedetta Arese Lucini, Paolo Giolito, Giuseppe Lacerenza e, appunto, Carlo Tassi), sono quello che da più tempo naviga nell’ecosistema e ho più esperienza degli altri. C’è da dire che ognuno dei finalisti aveva i suoi assi nella manica da giocarsi.
Da 10 anni lavori in questo settore, come è cambiato l’ecosistema?
Quando sono entrato a farne parte, questo ecosistema in Italia era piccolo. Nel 2014 operavano 6-7 fondi di venture capital con dotazioni abbastanza contenute e c’erano 2 gruppi di angel investing e 5-6 acceleratori. Conoscerli era facile, poi è arrivata Cassa Depositi e Prestiti che ha iniziato a gettare liquidità in questo piccolo mondo e gli attori si sono moltiplicati. Oggi è tutto molto più articolato ed è più interessante fare investimenti.
E che cosa è cambiato per gli angel investor?
Gli attori erano talmente pochi che spesso gli angel investor dovevano supportare la startup fino alla exit. Era tutto più anomalo rispetto agli altri ecosistemi, dove il ruolo degli investitori era missionario perché, comunque, dovevi prendere per mano gli imprenditori e accompagnarli non solo con l’aiuto di consigli e mentoring, ma anche da un punto di vista finanziario. Le società, quando non avevano più soldi, potevano chiederli a poche figure. E io ho cercato di finanziare società che non avevo già finanziato.
E in termini di investimento, come si sono evoluti i settori di interesse?
Siamo passati attraverso un po’ di hype differenti, a cominciare dal cloud, che è arrivato in Italia. Un tempo, l’e-commerce era tra i modelli di business più finanziati, poi sono arrivate la cybersecurity, la blockchain, oggi l’AI. In Italia arriviamo sempre un po’ in ritardo rispetto ad altri Paesi e viviamo di riflesso.
Quali sono, secondo te, i limiti del nostro ecosistema?
Sono di tue tipi: legislativi e culturali. In Italia ci sono ambiti in cui vantiamo eccellenze che ci vengono riconosciute anche all’estero e da un punto di vista universitario. Ma ci manca un mindset imprenditoriale. Nei settori legati all’healthcare, i talenti in Italia sono tanti, ma riscontro spesso in loro non l’idea di creare aziende ma progetti di ricerca e spesso i ricercatori si limitano a vedere quel che succede nel laboratorio, ma si dovrebbe coprire un gap imprenditoriale.
Quindi non è vero il paradigma che le startup che nascono oggi sono internazionali?
Sì, non è sempre così. L’imprenditore italiano dovrebbe essere smart, voler sviluppare cose sempre nuove, pensando a idee e prodotti internazionalizzabili in modo semplice e scalabili. Inoltre, spesso pecca di scarsa ambizione: c’è eccessiva attenzione a non rischiare troppo e a fare le cose con prudenza che si instaura l’idea che se non si cresce troppo, magari va bene così. Ma l’ambizione di fare qualcosa di grande deve essere un presupposto fondamentale per chi fa imprenditoria.
Quali sono, dal tuo punto di vista, le cose che mancano in Italia?
Gli investitori premiano la sostenibilità economica dei business angels ma negano un po’ la potenzialità della startup. Perchè questa scarsa ambizione non c’è solo da parte degli startupper, ma anche degli investitori. Fare qualcosa di grande, però, implica correre dei rischi, e se non sono disposto a farlo, allora è meglio non investire nel venture capital e diversificare il proprio portafoglio. E non sperare che le startup diventino soltanto piccole aziende. Ci si deve provare, se non ci provi non ci riesci. Si deve crescere molto e rischiare in fretta, è proprio questa l’anima dell’imprenditore, altrimenti resti una piccola azienda che cresce passo dopo passo.