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Se vuoi giocare nel campionato dei migliori devi andare nella Champions League delle startup: la Silicon Valley. Una sfida per imparare e tornare in Italia con un bagaglio ricco di competenze e consapevolezza. All’Innovation Bootcamp in Silicon Valley – il programma di full training intensivo per mettere in contatto investitori americani e startupper italiani organizzato da Joule, la scuola di Eni per l’impresa – ha partecipato anche Fourgreen.

Fourgreen è una startup innovativa ad alto contenuto tecnologico, che offre servizi relativi all’efficientamento energetico e alla sostenibilità ambientale. Una soluzione per rendere carbon neutral la distribuzione dei prodotti food&beverage nel canale Ho.re.ca, consentendo alle aziende distributrici di ridurre le emissioni fino alla carbon neutrality.

Umberto Napoli, COO&CoFounder di Fourgreen e Fabio Iandolo ( CEO&CoFounder ) ci raccontano cosa hanno imparato confrontandosi con il mito della Silicon Valley. Sette giorni nei quali il leggendario sogno americano è diventato anche un sogno italiano, ad occhi aperti, con la consistenza della realtà.

Umberto, la prima cosa che ti viene in mente pensando a all’Innovation Bootcamp in Silicon Valley?

«La semplicità e l’approccio diretto degli investitori americani che abbiamo incontrato a San Francisco. Con loro tutto è bianco o nero, senza ambiguità o tatticismi. Il rapporto deve essere caratterizzato dalla massima trasparenza in entrambe le direzioni: la startup deve aprirsi senza timore e l’investitore esprime giudizi molto diretti ma sempre costruttivi, finalizzati alla crescita e allo sviluppo del business. In Silicon Valley il livello qualitativo dell’interlocuzione è molto alto, si ha l’impressione che un’opportunità possa arrivare da un momento all’altro».

Il primo insegnamento?

«Un paradosso del quale siamo spesso vittime noi founder: la cosiddetta maledizione della conoscenza. Siamo le persone meno adatte a spiegare le nostre startup a un investitore, non siamo obiettivi perché le conosciamo troppo bene».

Soluzioni?

«Farsi affiancare da un advisor, possibilmente con esperienza internazionale, in grado di supportarci per riformulare la comunicazione della nostra idea. Comunicare in modo semplice, asciutto, diretto i nostri progetti».

La contaminazione dei mercati esteri è imprescindibile?

«Bisogna analizzare caso per caso, studiare il mercato e i prodotti che una startup commercializza, ma in generale direi sì: andare all’estero per confrontarsi con altri investitori è molto utile. Ma sappiate che nessuno può reggere il confronto con l’ecosistema delle startup negli Stati Uniti perché dispongono di enormi risorse. Giocano un campionato a parte».

Proviamo a descrivere le differenze, con le metafore, rispetto ad altri ecosistemi…

«Scelgo una metafora calcistica: noi siamo abituati a giocare davanti al portone di casa, mentre quello è un campionato di Champions League. Ma non dobbiamo pensare a un viaggio di sola andata; si può andare in trasferta negli Stati Uniti per imparare tante cose utili e tornare in Italia, magari aprendo una doppia sede in entrambi i Paesi, come richiedono gli investitori americani alle startup estere per investire nei loro progetti. Bisogna accettare l’idea che una base in Silicon Valley per accedere ai finanziamenti potrebbe essere indispensabile. Il consiglio è di non perdere le proprie radici ma al tempo stesso di pensare in grande con una visione internazionale per il business».

Immagine Joule rework

Cos’altro vi ha impressionato?

«Il livello di preparazione degli investitori: sapevano tutto della nostra startup, non limitandosi a quello che abbiamo esposto nel pitch. Feedback molto approfonditi su aspetti specifici. Questo denota interesse e rispetto per il nostro lavoro, come se fossero già soci della startup con la quale stanno discutendo».

Un altro aspetto decisivo e distintivo della Silicon Valley?

«I soldi. Questo è un aspetto importantissimo. Abbiamo capito che durante le negoziazioni non dobbiamo avere timore. Va chiesta la quantità di risorse adeguata anche quando si tratta di grosse cifre. Se una startup viene finanziata con risorse insufficienti, infatti, non arriverà al prossimo round con il livello di maturazione atteso. Se invece la startup riceve troppi finanziamenti c’è il rischio che al prossimo round non si presenteranno nuovi investitori. In entrambi i casi si perde tempo e non rispetta la roadmap. Sono la concretezza e la pianificazione a fare la differenza».

La concretezza chiama in causa il tempo. Come si svolgono le negoziazioni?

«La cosa più sorprendete è l’assenza di una negoziazione vera e propria. Il rapporto tra investitore e startup si sviluppa alla pari. Da una parte la startup cerca fondi e networking, dall’altra l’investitore mette a disposizione le proprie risorse ricevendo equity della società. In Italia, invece, spesso la startup assume un ruolo remissivo e troppo prudente rispetto agli investitori, iniziando una negoziazione lunga e complessa che distoglie la concentrazione dallo sviluppo del business. Così gli startupper si trovano costretti ad accettare fondi inferiori alle reali esigenze, con il rischio di andare a discapito del reale fabbisogno per la realizzazione della soluzione proposta».

Come riassumeresti il mindset che vi hanno trasmesso?

«Think Big! Pensare in grande. Il territorio nel quale immaginiamo di sviluppare la nostra startup va moltiplicato per dieci. Bisogna andare oltre ai confini del mercato pensato inizialmente. Un’idea va stretchata, allargata, allungata. Un esercizio continuo, senza paura».