«Me lo ricordo il giorno in cui ho deciso che avrei smesso di lavorare in Versace: era estate ed ero sulla metropolitana a Milano, non andava l’aria condizionata. Eravamo tutti pigiati, sudati. Mi sono detta che non era la vita che volevo fare. Per me la possibilità di staccare e prendermi un cappuccino al sole ha un valore troppo grande. Non sono pentita della mia scelta, ho un’altra idea di successo». Lara Dittfeld, classe 1976, è stata per molti anni al vertice di uno dei più noti brand dell’alta moda. In qualità di Marketing Project Manager riferiva direttamente all’amministratore delegato. Una vita da Il Diavolo veste Prada. «Ho vissuto in un certo senso in quel modo. A 25 anni è figo. A 35 meno».
In questa nuova puntata della rubrica “Italiani dell’altro mondo” siamo andati in Svizzera, a Lugano, dove questa imprenditrice da tempo ha lasciato la sua vecchia vita nel fashion per intraprendere una strada personale. Oggi è a capo di Nina, una startup in ambito femtech che si occupa del benessere sessuale. Con una community di un migliaio di utenti paganti, ha una galleria di audio e podcast per sbloccare fantasie ed entrare in sintonia con il proprio corpo. «È una grande bugia il fatto che le donne non siano interessate al sesso e all’autoerotismo. Isabella Allende diceva che chi cerca il punto G delle donne al di sotto delle orecchie sta perdendo il suo tempo».

La voglia di dare un contributo alla società
Ma perché una donna in carriera nella moda, passata per alcune delle più importanti società e multinazionale del settore, ha deciso di fare tabula rasa e ricominciare da capo? Partiamo dall’inizio della storia, quando Lara Dittfeld è uscita dall’università Bocconi. «Ho iniziato a lavorare per LVMH in marketing e branding; poi sono passata in Safilo, dove mi sono occupata degli occhiali del mondo Gucci; e infine Versace».
Il fashion è un mondo che, come molti altri, è stato investito dalla digitalizzazione. Basti pensare all’effetto influencer sulle sfilate e all’eco social. «Sono grata per quel percorso. Mi ha permesso di girare il mondo intero, ma non mi rappresentava più. Le multinazionali danno tanto, ma tolgono altrettanto, soprattutto quella che è la tua individualità». Immersa per così tanti anni in quel mondo, oggi si sente lontana anni luce. «Leggo ancora per abitudine Pambianco, e basta. Ho lasciato perché non mi sentivo di dare il mio contributo. Oggi peraltro la moda è fatta in larghissima parte in Cina».

Il passaggio al mondo startup è stata graduale e ha previsto una transizione nel mondo dell’arte. «Gianni Versace era un collezionista e dal momento che c’era uno spazio a Milano su quei temi ho chiesto di poterli seguire per l’azienda. Mi sono occupata di progetti culturali con realtà come la Fondazione Andy Warhol. Proprio di recente ho ritrovato un vecchio diario che racconta proprio quel periodo: ero stata alla Tate di Londra per più giorni per possibili progetti artistici».
Ricominciare da capo
Dal marketing in una multinazionale Lara Dittfeld si è spostata verso il mondo della cultura e dell’artigianato. «Dalla Bocconi sono tornata sui banchi, ma a Brera. Ho fatto per un po’ consulenza nel mondo dell’arte. Ma non è durato molto». Il primo contatto col settore startup è stato fortuito: è diventata country manager di Zanoby, una piattaforma nata a San Francisco per l’artigianato d’alta gamma made in Italy. «Ma è stato un fallimento, ho smesso dopo pochi mesi».
Lara Dittfeld, con alle spalle una carriera ben avviata nell’alta moda, non si è mai guardata indietro con un sospiro. Zero pentimenti, ci ha confidato nel corso dell’intervista. La sua è una delle tante storie che abbiamo imparato a conoscere nel periodo della pandemia, con il fenomeno delle Grandi Dimissioni. C’è chi ha avuto il coraggio o chi semplicemente poteva permetterselo: dimettersi per seguire la propria strada è stata per molte persone una scelta liberatoria.
Ma la decisione di Lara di virare sul mondo tech è avvenuta anni prima della pandemia. «Sono piuttosto nerd e nel 2016 ho cominciato a interessarmi del mondo della blockchain. Mio fratello aveva comprato i primi bitcoin». L’anno successivo è stata tra i cofounder di Mangrovia, società attiva in questo ambito all’epoca ancora di nicchia, specie in Italia. In quel periodo ha cominciato a fare la spola tra Milano e la Svizzera, Paese dove infine ha deciso di rimanere anche per via di maggiori opportunità per la sua attuale startup.

Innovare tra i tabù
Ma, a proposito, come è finita a fare impresa nel mondo del benessere sessuale? «Nina è nata così: stavo ascoltando un audio di meditazione e la voce del narratore era particolarmente suadente. Ne ho parlato con le mie amiche». Col tempo ha raccolto le fantasie anonime di un sacco di persone aprendo quella che lei stessa a definito una casa editrice audio. «Ho coinvolto doppiatori e doppiatrici. Su 1000 utenti paganti il 35% è composto da uomini. Per me il benessere sessuale è uno stato di benessere legato alla sessualità e alla socialità della sessualità». Per quanto molti tabù siano stati abbattuti, rimane ancora una cultura maschilista da una parte e bacchettona dall’altra.
Gli audio sulla piattaforma possono variare dai 5 ai 25 minuti e sono «contenuti erotici inclusivi». La startup Nina oggi collabora anche con sessuologi, che consigliano ai propri pazienti i podcast per una maggiore consapevolezza dell’aspetto erotico. Nell’epoca del porno gratuito e onnipresente, quanto è difficile ritagliarsi uno spazio? «Ecco uno dei motivi per cui abbiamo scelto la Svizzera: l’unica volta che ho parlato con un investitore italiano il commento è stato che avremmo creato un nuovo OnlyFans. Ma il sesso non è pornografia. Qui abbiamo vinto un bando della federazione per sviluppare contenuti erotici con l’AI».

L’AI ne sa di erotismo?
Tema che interessa le principali multinazionali del settore, a partire da OpenAI. Sam Altman, dicendo di volere trattare gli adulti da adulti, ha di recente sdoganato l’utilizzo della propria piattaforma per lasciare che gli utenti soddisfino ogni tipo di fantasia. Non è la prima volta che persone vulnerabili si affidano alla tecnologia per colmare il senso di solitudine e l’ansia sociale. Ma ad oggi questi strumenti diventano ancora più potenti. Nina vuole rientrare in questo segmento così ghiotto di mercato?
«Lo trovo distopico. Il problema di questo tool è quando si cerca di sostituire il rapporto umano. Noi lo abbiamo testato, ma non ha funzionato perché quello che attiene alla sensualità è troppo delicato. Le scene erotiche raccontate dall’AI sono banali, piatte. In passato mi sono pure interrogata se avesse senso un coach intimo basato sull’Intelligenza artificiale. Ma sono io la prima che non lo vorrei. Il mondo ha voglia di offline e Nina è uno strumento per metterti in connessione».
