«Non sono un biotech guy» è una delle prime frasi che Pierluigi Paracchi ci tiene a precisare. Oggi è Ceo di Genenta Science, la scaleup italiana quotata al Nasdaq e vincitrice di SIOS19 del nostro premio come Startup dell’Anno.
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Eppure, anche se non ha studi scientifici alle spalle, Paracchi ha ottenuto risultati straordinari per il biotech italiano. Classe 1973, nato a Milano, con studi in Economia all’Università Cattolica, fonda da vero pioniere il primo venture capital nel 2002 dedicato proprio alle biotecnologie (Quantica SGR, ndr), quando non c’era nulla o poco di simile in Italia: «Ho visto nascere tutti i vc italiani. Siamo stati tra i primi ad avviare un’onda e a lavorare sullo sviluppo di tecnologie che oggi chiameremmo deeptech».
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Nel 2013 Paracchi conquista le luci della ribalta investendo in EOS, startup che sviluppa in quegli anni una molecola antitumorale, poi acquistata dagli americani di Clovis, un colpo da 400 milioni. Questo è solo l’esordio di una carriera luminosa che negli anni successivi si lega sempre di più a Genenta Science, altra biotech, nata questa volta al San Raffaele di Milano, della quale diventa Ceo.
Da un’intuizione fino al NASDAQ
Siamo nel 2014 quando incontra Luigi Naldini, direttore dell’Istituto San Raffaele e Telethon per la terapia genica e scienziato affermato. Con il suo team Naldini ambiva ad avviare dei trial clinici per utilizzare la terapia genica nei trattamenti oncologici. Paracchi si innamora del progetto e decide di farne parte attivamente.

In particolare, l’obiettivo di Genenta Science è di curare i tumori attraverso degli agenti “estratti” dalla “parte buona” del virus dell’HIV. In termini più tecnici, la tecnologia chiave è basata sull’ingegneria delle cellule staminali ematopoietiche, per introdurre un gene terapeutico che viene “sfruttato” all’interno del microambiente tumorale. Lo sforzo di ricercatori si concentra oggi sul glioblastoma multiforme, un tumore maligno che colpisce il cervello: è lo stesso di cui è stata vittima la compianta giornalista delle Iene Nadia Toffa.
«L’emozione più forte? Quando abbiamo dosato il primo paziente»
Grazie al lavoro di Paracchi arrivano i primi investimenti: 10 milioni di euro nel gennaio del 2015 grazie a Mediobanca, un altro round di 7 milioni nel 2017 da parte di investitori privati. E poi ancora i 13,2 milioni guidati dal private equity cinese Qianzhan e la Fidim dei Rovati (2019) e poi recentemente, nel marzo del 2025, i 20 milioni messi da Enea Tech. E nel mezzo, nel 2021, l’evento di maggiore rilievo nella storia della biotech: la quotazione americana al Nasdaq, un’operazione allora da 37 milioni di dollari.

Che ricordo ha di quei giorni?
Il passaggio più emozionante è stata la cerimonia a Times Square, poter conquistare la closing bell ceremony (ovvero la campanella che chiude la sessione di contrattazioni del Nasdaq, ndr). E poi essere nelle dirette delle tv americane. Per me che sono partito dal mondo della finanza, è stata la chiusura di un cerchio.
Questo resta il ricordo più bello?
Una delle emozioni più forti che ho provato è nel 2019. Proprio quando stava per nascere il mio secondo figlio abbiamo dosato il primo paziente. Sai una cosa è fare test clinici, un’altra è accorgersi che quella terapia può curare le persone.
Il 2019 è anche l’anno in cui siete siete premiati come Startup dell’anno a SIOS…
Non me lo aspettavo. All’epoca c’erano tante società nel B2C molto più popolari di noi, soprattutto nell’ecommerce. Non era scontato che ci fosse una sensibilità verso una startup che sviluppava nuove terapie mediche e della quale non si poteva ancora misurare l’impatto. A distanza di anni, posso dire che quella vittoria ha aumentato la fiducia, il “trust” nel progetto sia negli investor che ci avevano già creduto, sia verso chi aveva intenzione di investire.

Ci sono stati recentemente nuovi test clinici, con quali risultati?
Nell’ultimo test, 25 pazienti hanno già ricevuto Temferon, la nostra terapia sperimentale basata sull’ingegnerizzazione delle cellule staminali ematopoietiche. I dati clinici raccolti sono molto promettenti. Nello studio su pazienti affetti da glioblastoma il tasso di sopravvivenza a due anni si è mantenuto al 29% e la sopravvivenza globale mediana a 17 mesi. In particolare, due pazienti hanno superato i tre anni di vita. Risultati superiori rispetto alle cure standard, che in passato hanno mostrato una sopravvivenza a due anni di circa il 14% e una mediana di 13-15 mesi.
Oggi Genenta è una società internazionale, ma la ricerca resta fortemente italiana…
Negli anni la società è cresciuta molto. Oggi ha un valore di mercato che si aggira tra i 70 e gli 80 milioni di dollari, con una squadra composta da una decina di persone. Il team di ricerca è ancora basato al San Raffaele. Come succede nelle biotech nelle fasi iniziali, l’obiettivo oggi di Genenta non è fatturare, ma di creare dati clinici. Siamo e restiamo profondamente italiani, laddove succede che altre tecnologie nate in Italia finiscano altrove.
Che significa oggi per un’innovazione restare “italiana”, malgrado raccolga all’estero i capitali?
Il mondo è cambiato e oggi è fondamentale avere una coscienza nazionale: se possiedi una forza tecnologica, fai bene al tuo Paese. Se un vaccino nasce qui, o se una terapia oncologica nasce qui, deve poter curare prima i pazienti italiani, al San Raffaele e negli altri nostri centri di eccellenza. Al contrario, quando una terapia innovativa nasce in Cina o negli Stati Uniti, la sperimentazione parte subito lì.
Lei è stato sia venture che startupper e ha un osservatorio privilegiato. Cosa manca al nostro Paese per competere?
Parto dal problema. In Paesi come Stati Uniti, Cina, Cina, Israele e UK, il venture capital lavora per trasformare imprese e iniziative, secondo una visione governativa strategica, in campioni mondiali. In Europa, invece il venture capital lavora a stretto contatto con il pubblico, ma senza una visione di insieme, raccattando capitale qui e là e dividendolo in tante iniziative diverse, invece di puntare sulla crescita di settori strategici.
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Con quali conseguenze?
Questi Paesi diventano “follower” di tecnologia e che fanno migrare sia talenti che aziende. Bisogna cambiare la cultura a partire dai policy maker ed è per questo che ho lanciato la fondazione Praexidia, che nasce per promuovere la consapevolezza dell’importanza dei settori industriali strategici per la sicurezza nazionale, l’innovazione tecnologica e la competitività dell’Italia.

Praexidia ha già realizzato degli studi significativi sulla situazione dell’innovazione italiana. Cosa è emerso?
Abbiamo analizzato tutte le exit dal 2000 a oggi: in due casi su tre l’acquirente non è italiano. Questo significa che il capitale privato, invece di creare campioni nazionali, trasferisce know-how all’estero, arricchendo i Paesi leader. È successo con casi come Yoox e accade oggi con l’intelligenza artificiale, dove manca una visione strategica. Il paradosso è che continuiamo a impiegare soldi pubblici in modo inefficace: su dieci operazioni, sette si chiudono e le tre di successo finiscono nelle mani di Stati Uniti o Regno Unito. Così, con le nostre risorse, stiamo di fatto finanziando il technology transfer all’estero.
«In due casi su tre, l’acquirente non è italiano: così perdiamo i nostri campioni»
Cosa si potrebbe fare per invertire la tendenza?
Usare agenzie come CDP per moltiplicare piccoli investimenti è uno spreco, addirittura controproducente. Torniamo sul biotech. Bisogna scegliere malattie di interesse nazionale, tecnologie emergenti e aziende che sviluppano innovazione strategica. Su questi ambiti occorre fare investimenti, concentrare risorse vere. Non ha senso investire meno di 25 milioni su un progetto: se si distribuisce un milione a cento realtà non si crea nulla. Se invece metti 100 milioni su una sola realtà, può nascere potenzialmente un campione.
Cosa può insegnare la storia di Genenta?
Di guardare al lato positivo. Malgrado le difficoltà che ho evidenziato, ci sono due vantaggi evidenti nel creare un’innovazione in Italia. ll primo è che la competizione è bassa, rispetto a mercati come quello statunitense, dove ti confronti ogni giorno con delle “shark tank”, delle gabbie di squali. Inoltre, il costo del lavoro per figure specializzate è più basso rispetto ai Paesi evoluti. In questo scenario, proprio perché la competizione è ridotta e le risorse hanno un buon valore, c’è la possibilità di creare qualcosa che abbia un impatto.