«Oggi uno dei temi più complessi da affrontare quando si parla di difesa riguarda gli oggetti piccoli, droni di 4 kg per esempio, che volano a bassa quota in maniera non lineare. Come dice una massima popolare i cinesi pensano sul lungo, gli americani pensano in grande, noi europei pensiamo complicato». Simone Lo Russo, founder e Ceo di Impianti, è da decenni un imprenditore attivo in vari settori dell’innovazione tecnologica a partire dalle infrastrutture ICT con clienti complessi come grandi aziende, governi e Pubbliche amministrazioni.
«Da qualche anno abbiamo lanciato una strategia specifica sui droni, creando una divisione in ambito difesa che si occupa di mobilità aerea avanzata anche in ambito civile. Siamo aperti a partnership con startup, per completare l’offerta». Ma quel che è emerso nel corso dell’intervista è che, ad oggi, le soluzioni pronte all’uso non sono facilmente reperibili nel mercato europeo.

Droni, il problema degli aeroporti bloccati
«Oggi Impianti è al 49% un system integrator e al 51% è un business developer». Come ci ha spiegato Simone Lo Russo, se si parla di droni – uno degli argomenti più interessanti e attuali nel panorama innovazione negli ultimi anni – il punto di partenza è sempre lo scouting delle soluzioni migliori. «Facciamo il business developer di aziende straniere, acquisiamo una distribuzione esclusiva di componenti e poi lanciamo le nostre soluzioni sul mercato italiano». Quelli in questione non sono droni o prodotti di ambito militare, ma civile. Eppure come dimostrano le notizie degli ultimi mesi, con aeroporti bloccati in mezza Europa per avvistamenti di UAV non collaborativi, parecchie aziende sono esposte a queste minacce, tra spionaggio industriale e danni alle infrastrutture.
«Ad oggi gli aeroporti hanno sistemi generalisti, che non riescono a rilevare queste minacce». Questo anche perché, come ci ha spiegato l’imprenditore, l’impiego di UAV fino a una decina di anni fa si limitava al perimetro degli hobby. Dall’invasione Ucraina in poi le cose sono cambiate e la possibilità di autoprodursi droni rende lo scenario estremamente più complicato. «Oggetti piccoli che si muovono lentamente sono un problema. Droni da 3 kg richiedono una rilevazione radar e acustica estremamente granulare per ridurre il falso positivo».

Le tecnologie ad oggi ci sono, ma quel che va detto è che difficilmente battono bandiera europea. «In Europa ci sono più soluzioni di nicchia, o in modalità startup o scaleup. Tipicamente il settore difesa ricerca soluzioni pronte all’uso. E non fai una soluzione radar, con startup, in due minuti». Quello che Impianti svolge è uno scouting all’estero perché il mercato oggi ha una crescente urgenza di attrezzarsi per la guerra ibrida, che non prevede soltanto missili e armi negli arsenali, ma anche capacità di generare caos e panico. «Quelle che proponiamo sono soluzioni spesso nordamericane. Per difendersi dai droni occorrono radar e tecnologie simili».
L’Europa sa fare droni?
Un altro spunto rilevante che aiuta a chiarire la difficoltà di mettere sul mercato soluzioni di difesa è che non basta il prodotto perfetto. «Spesso i nuovi imprenditori non tengono conto che, in Europa, il 60% degli investimenti riguarda l’omologazione di tutto ciò che vola. Parliamo di cifre come 200mila euro. Non bastano un prodotto e un round. A quel punto sei soltanto al primo giorno di scuola». Si ritorna dunque a una caratteristica peculiare dell’Europa che regola e norma, mentre altri contesti corrono.

L’esempio estremo di innovazione lasciata correre è quello dell’Ucraina, divenuta un polo di eccellenza nell’industria dei droni. «Per le certificazioni occorrono dai 9 ai 12 mesi in Europa. Ma se si tratta di prodotti militari tutto è in deroga. In Ucraina le innovazioni nel settore sono a ritmo mensile: in guerra tutta la ricerca e sviluppo è sganciata da regole e vincoli». Veniamo allora a uno degli argomenti sul tavolo dell’Europa, lo scudo di droni per il quale molto si è speso a parole, ma a terra non c’è ancora nulla di concreto.
Lo scudo di droni è fattibile?
La stessa immagine di scudo illude sul fatto che ci possa essere una copertura diffusa, totale del territorio. «Ma è impossibile pensare di proteggere tutta l’Italia in questo senso. Siamo intanto meno esposti rispetto ai Paesi dell’est Europa, ma i siti sensibili e strategici devono avere protezione. Le coperture radar vanno fatte per siti energetici e i siti governativi. La cosa importante è la parte di identificazione precoce: devi sapere cosa sta avvenendo perché una cosa è un ragazzino che ignora un divieto e fa decollare un drone dove non deve, un’altra è un malintenzionato».

E una volta identificata la minaccia? «Ci sono sistemi interdittivi: in centro a Roma e a Milano centro non puoi sparare con l’M60. Noi ad esempio proponiamo un drone hunter, una sorta di drone Spider Man che cattura il drone non collaborativo lanciando una rete. Così lo rende innocuo». E si parla sempre di UAV ad uso civile. «Se avessimo minacce tipo Shahed con apertura alare di 2,5 metri avremmo un altro tipo di problema, ovviamente».
In questa guerra ibrida ci sono gli eserciti, ma anche i lupi solitari, o le gang criminali a cui appaltare compiti per creare il panico. E i droni da questo punto di vista sono oggetti che possono rendere particolarmente inquieta la vita delle persone. «In molti casi sono autocostruiti, non compaiono sulle piattaforme di controllo commerciali. Dal gennaio 2024 è obbligatorio che ogni drone abbia installato in origine un trasponder, un sistema di identificazione a 2,4 GHz. Vale per tutti i droni superiori a 250 grammi di peso. Ma un malintenzionato non mette certo il trasponder. Ecco perché vanno distinti droni collaborativi da non collaborativi».

Droni pericolosi, ma anche droni preziosi
La sfide sono tante, specie nelle zone aeree a bassa quota, dove la digitalizzazione dello spazio offre grandi opportunità di sviluppo – si pensi all’impiego dei droni per il trasporto di sangue, organi, farmaci in zone remote e sulle isole – ma anche rischi che vanno tenuti in considerazione. Nel frattempo l’Europa ha messo a terra una joint venture che in ambito difesa vale come primo tassello per l’autonomia strategica nella space economy: il riferimento e all’accordo tra Leonardo, Thales e Airbus per il mercato dei satelliti. «Visti i nomi mi sembra che sia una mossa che va nell’ottica di avere sistemi convergenti a livello di investimenti. Così si fa economia di scala».
Che sia troppo tardi o meno, l’Europa fa i conti con l’eccessiva leggerezza con cui ha trattato la propria condizione di privilegio negli ultimi decenni. L’ombrello della NATO e la globalizzazione l’hanno abituata a uno status quo che oggi è cambiato. «Da cittadino penso che l’attenzione sulla difesa, visto quanto accaduto nella parte est dell’Europa, debba essere massima. Dopo tanti anni in cui ci siamo affidati allo zio Sam oggi lo scenario è diverso. E dobbiamo fare da soli».

