Imprenditrice cosmopolita, visionaria, mamma, mentor, advisor e molto altro. Sharon Cittone, classe ’74, dopo un passato tra la moda e la TV, ex CSO di Seeds&Chips, oggi guida Edible Planet Ventures, piattaforma internazionale attiva dal 2021 che punta a risolvere i problemi del food system con una grande rete di startup, investitori, scienziati, policy maker. «Non possiamo parlare di salute, ambiente o innovazione senza partire dal piatto. Eppure, spesso, le donne restano fuori dai luoghi dove si decide davvero», racconta a StartupItalia. Sharon di gender gap ne sa qualcosa: è la ragione che l’ha spinta a presiedere il G100 nella categoria Food Innovation, una rete che promuove l’empowerment economico delle donne nel settore dell’innovazione alimentare. Un futuro tutto da scrivere e un passato da cui imparare per non ripetere gli stessi errori guidano la sua storia. Ci raccontato tutto nella nuova puntata di Unstoppable Women.

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Sharon, tu sei italo-americana, dove sei nata e dove hai vissuto?
Sono nata nel ’74 a Milano ma poi mi sono trasferita negli Stati Uniti, a New York. Il mio percorso generale non è stato molto lineare: negli USA ho fatto il liceo e l’Università, mi sono laureata in Giornalismo e Comunicazione, poi ho lavorato nella moda e nella TV per diversi anni ma, 38enne, ho deciso che era arrivato il momento di cambiare.
E che cosa è successo?
Sono tornata in Italia, nel frattempo era nata mia figlia e avevo intenzione di farla crescere in un ambiente diverso da quello americano. E poi avevo bisogno di stimoli diversi. Ma dopo qualche anno qui mi mancava come si dice in americano il “purpose”. Da mamma single ho sempre pensato che avrei dovuto lasciare a mia figlia un percorso migliore di quello che ho trovato e allora mi sono buttata su tutt’altro tipo di carriera. Ho, quindi, iniziato a guardare al filone dell’agroalimentare, a quel tempo poco battuto considerando che non c’era neppure Expo, non si parlava dei dati né, tantomeno, di food system. Ma vedevo tante startup che stavano nascendo in questo comparto e così il tema mi ha appassionata e mi ci sono buttata a capofitto.
E quindi hai trovato quello che cercavi?
Si, se penso a quando sono tornata in Italia sono assolutamente contenta di quella mia decisione. Mia mamma viveva in Svizzera, le mie sorelle stavano qui e avevo una famiglia più vicina per mia figlia. I ritmi di vita, poi, sono completamente diversi rispetto a quelli americani così come il costo delle scuole e in generale. Ma è’ stata una bella sfida, soprattutto verso me stessa.
E che cosa ha scatenato in te questo cambio radicale?
Direi che principalmente non mi piaceva quello che stavo facendo. Mi sono accorta dopo un po’ di anni che moda e la TV, dove lavoravo comunque nel campo della comunicazione, non facevano per me.
E cosa ti attraeva, invece, del food?
Partirei da una premessa: da bambina ho lottato per tantissimi anni con il morbo di Kron, il cibo è sempre stato un problema per me e non c’era neanche una cura specifica. Ma siccome sono una persona che valuta le cose d’insieme per quello che sono, mai lineari, col passare del tempo ho capito che questo grande sistema stava crescendo tantissimo, e così anche il suo network. Pertanto ho deciso di fondare Edible Planet Ventures, al fine di connettere il mondo del venture capital a quello di associazioni e startup, in una visione olistica e d’insieme.

E in Edible Planet Ventures hai convogliato tutte le tue conoscenze?
Si, per la mia esperienza nel corso degli anni ero riuscita a crearmi un grande ecosistema fatto di persone con interessi e progetti in comune. Nessuno “nasce imparato” ma avevo ben chiaro l’obiettivo: portare avanti un progetto, mettere insieme una strategia e approcciare un intero sistema anche con il venture capital non considerando mai l’agrifood “a compartimenti stagni” ma come parte di un grande ecosistema.
E poi che cosa è successo?
Ho capito che l’agrifood stava diventando sempre più settoriale e così mi sono messa alla ricerca di soluzioni per l’allevamento intensivo creando occasioni di confronto e condivisione di soluzioni. Ma ho anche portato avanti progetti che aiutano, per esempio, gli agricoltori a diversificare le revenue inserendo negli allevamenti delle strutture con bioreattori oltre a mitigare l’impatto sui rischi di un agricoltore come il clima, la siccità o altro.
E oggi sei anche presidente del G100 nella Food Innovation..
Sì, il tema del gender gap mi ha sempre toccato in modo particolare: ne ho sofferto molto, così come diverse mie colleghe ne hanno sofferto molto e mi sono detta che cambiare è oggi necessario. Per questo ho voluto questo incarico all’interno di un network che conta più di 5 milioni di donne in 100 settori diversi con country chair in tanti Paesi. Uno spazio dove poter condividere esperienze, raccontare storie, cercare soluzioni e confrontarsi e un’occasione in più per conoscersi.

In particolare, c’è un episodio che ricordi in cui ti sei sentita “messa ai margini”?
Un episodio in particolare direi di no ma fino a che non sono diventata imprenditrice ho sempre sentito tantissimo questo divario di genere. Nello stipendio, nell’ascolto, nel fatto che devi sempre dimostrare qualcosa in più rispetto agli uomini. Oggi purtroppo siamo ancora lontane dall’abbattere questo soffitto di cristallo e lo vediamo nei numeri e nei dati che sono abbastanza chiari: le startup con leadership al femminile hanno una performance migliore ma ricevono solo il 2-3% del totale dei capitali.
Secondo te, quindi, che cosa deve cambiare?
Sarà molto difficile ma dovremmo riuscire a sradicare quella mentalità patriarcale che ho sempre notato nei board a cui spesso partecipano solo uomini con i loro bias. E credo che tra le cose più difficili da fare ci sia quella di insegnare un modo diverso alla generazione del domani che comunque vive una difficoltà costante perché tutt’oggi alle donne viene chiesto di più che agli uomini. Ma serve, prima di tutto, l’educazione alla partità di genere. Anche nelle corporate, non solo in famiglia. E bisogna creare le infrastrutture necessarie per abbattere un problema così grande e capire che la diversità porta valore, a prescindere da dove provenga. Ed è un valore a cui si deve educare la nuova generazione.
Che progetti hai in cantiere nel prossimo futuro?
Con il Milan Longevity Summit, che nasce come conferenza legata al mondo della longevità intesa in un senso molto ampio: dalla vita ai materiali fino al lavoro vogliamo lanciare un nuovo format composto da due anime. In una prima fase, discutiamo di innovazione e industria ma poi ci immergiamo in esperienze pratiche nelle quali la persona può imparare e sperimentare nuove tecnologie, conoscenze e possibili soluzioni (anche non tech ma essenziali) come ridisegnare gli spazi urbani. Vorrei tanto che Milano anche in questo campo diventasse un incubatore a cielo aperto.

