Da 30 anni lavora per grandi multinazionali. Prima in Alcatel-Lucent, come direttrice della Comunicazione e dei Public Affairs per l’Italia e i paesi del Mediterraneo, poi dal 1998 al 2009 in Accenture fino a General Electric e poi di nuovo in Accenture, dove oggi ricopre il ruolo di direttrice marketing e comunicazione per l’Italia. In tasca una laurea in Storia Contemporanea e un master in Programmazione Neuro-Linguistica. Paola Mascaro, che sarà una delle nostre ospiti nel panel dedicato alle Unstoppable Women durante SIOS25 Winter il 17 dicembre a palazzo Mezzanotte a Milano, è presidente emerita di Valore D, associazione che ha guidato dal 2019 al 2022, e co-fondatrice e promotrice di In the Boardroom, un programma di formazione di alto livello per donne che aspirano a far parte dei consigli di amministrazione.
Nel 2020 ha fatto parte insieme ad altre 14 donne della Task Force “Donne per un Nuovo Rinascimento” con l’obiettivo di definire e sviluppare le linee essenziali di quello che è poi diventato il Piano Strategico Nazionale per le Pari Opportunità. Nello stesso anno, proprio per l’impegno svolto in ambito istituzionale e sociale, Forbes l’ha inclusa nella lista delle Top 100 Women. Durante la presidenza italiana del G20, Paola è stata presidente del tavolo G20 Empower, che riunisce leader del settore privato e controparti governative per sostenere e promuovere l’avanzamento delle donne in posizioni di vertice. L’abbiamo intercettata per farci raccontare il suo impegno nell’abbattimento del gender gap e quali sono adesso le sue aspirazioni.

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Paola, sei da sempre impegnata a combattere il gender gap, ma l’hai mai provato su di te?
Partendo dal presupposto che appartengo alla GenX e sono sempre stata attratta dalla dimensione internazionale e dal confronto culturale oltre, chiaramente, al mio ambito di interesse professionale della comunicazione e del marketing, dopo le prime esperienze lavorative mi sono resa conto del fatto che il gender gap esisteva davvero e che ero immersa in una cultura che non era capace di essere inclusiva. Via via che diventavo più matura, questa missione verso l’inclusione di genere si è spostata dall’essere un impegno da individuale a collettivo, soprattutto per le donne più giovani che avevano meno risorse. Un impegno che si è, poi, tradotto in incarichi istituzionali.
Da Valore D fino alla presidenza del tavolo al G20….
Si, dal 2019 al 2022 sono stata presidente di Valore D, oggi sono presidente emerita, sono co-fondatrice e promotrice di “In the Boardroom“, un programma di formazione di alto livello per donne che aspirano a far parte dei consigli di amministrazione, faccio parte del consiglio di amministrazione della Fondazione Ronald McDonald in un secondo mandato e nel 2020 ho fatto parte insieme ad altre 14 donne della Task Force “Donne per un Nuovo Rinascimento” con l’obiettivo di definire e sviluppare le linee essenziali di quello che è poi diventato il Piano Strategico Nazionale per le Pari Opportunità voluto dalla ministra Elena Bonetti. Durante la presidenza italiana del G20, ho avuto l’onore di presiedere il tavolo G20 Empower, che riunisce leader del settore privato e controparti governative per sostenere e promuovere l’avanzamento delle donne in posizioni di vertice. Oggi questo impegno continua a portare voci e testimonianze anche in altri ambiti di confronto.
Per te che cosa significa “inclusione di genere”?
Per me è un impegno collettivo. Io mi considero un’attivista con un impegno attivo su questi temi che cambia in funzione del ruolo del momento ma che non mente mai. Tra poco compio 60 anni ma non sono ancora stanca di parlare di parità: assistiamo anche a un problema occupazionale nelle over55 e c’è ancora un forte bias su questo tema. Le donne dovrebbero essere graziose e giovani per sempre secondo certi canoni. Anche la mia generazione ha dovuto spingere molto per provare ad abbattere questo soffitto di cristallo, a volte sacrificando tanto a fronte di dover dimostrare tantissimo per salire di pochi gradini. E per fortuna le giovani generazioni non sono più disposte a pagare questo sconto, vogliono tutto: realizzarsi nella vita privata e in quella professionale.

Tu che da diversi anni studi il fenomeno, a quando risale, secondo te, il momento del vero cambiamento?
Più o meno direi a 15 anni fa, quando nelle aziende si è cominciato a parlare di obiettivi misurabili sia reputazionali che di mercato. La misurabilità dei progetti ti dà il metro del cambiamento anche in termini di inclusione, compliance e modalità di lavoro. Come Valore D, diamo il nostro contribuito alla legge di genere nelle imprese. La certificazione di genere è una tappa importante perché il percorso per arrivarci ti fa riflettere su come l’azienda si stia comportando per darsi obiettivi concreti e farti migliorare. Poi devo dire che stiamo assistendo a una grande diversità geografica nel Paese: il Nord è sui numeri dell’Europa, il Sud, invece, paga un grande scotto della questione meridionale incrociata con quella femminile. Al Sud lavorano meno donne rispetto al Nord.
Da non laureata in STEM, è stato difficile affermarti nelle aziende per cui hai lavorato?
Sapevo che sarei partita con una sorta di “handicap” rispetto a una laurea economica, ma ho sempre seguito il cuore e questo mi ha sempre dato grande soddisfazione. L’esperienza in General Electric è stata la più solida, è una scuola di leadership nota e un’esperienza preziosa. Mi sono accorta che avrei potuto prendere una posizione di leadership quando ho smesso di coordinare e affidare compiti al mio team per passare a un ruolo di guida. Si tratta di un passaggio molto personale: ti metti in discussione e apri cassetti a cui magari, sino a quel momento, non avevi pensato. E ti interfacci con le tue paure, le tue insicurezze, anche un senso di inadeguatezza che però va superato. Noi vogliamo essere iper-preparate e iper-documentate, e questo è comprensibile ma dobbiamo anche fare pace con questa attenzione verso la perfezione che non esiste, altrimenti ci facciamo male da sole.
Quali sono quindi i tuoi mantra?
Sicuramente uno è “aiuta e fatti aiutare”. Non si deve avere vergogna a farsi aiutare quando se ne ha bisogno così come bisognerebbe sempre tendere una mano a chi anche inconsciamente ce la chiede. L’individualismo porta anche a un’insicurezza che non ci dà forza.

Il tuo nuovo libro si chiama “Le fatiche di Eva”, che cosa racconta?
È un impegno che viene da lontano, da un’esperienza vissuta personalmente e dopo anni mi sento di poter approfondire a fondo il tema del gender gap. Io sono una donna d’azienda che ha fatto tanta esperienza cercando di mettere a fuoco paure, incertezze, insicurezza per crescere. Nel libro rifletto su varie domande con uomini e donne, bambini e bambine che devono fare i conti con pregiudizi inconsapevoli e con un imprinting che subiscono già in età prescolare immersi in un mondo che ancora distingue “ruoli da maschi e “ruoli da femmine”. Poi mi sono occupata di percorsi accademici e scelte delle ragazze, del tema della maternità, di body shaming e delle donne che guardano a modelli irrealizzabili, della medicina di genere, del tema del linguaggio e della fisicità, dei paesi a economia emergente dove in alcuni la situazione è molto diversa rispetto a quello che ci aspettiamo, di violenza economico-finanziaria e fisica e dei femminicidi. Insomma, tanti temi nella speranza che questo soffitto di cristallo, meglio prima che poi, si riesca ad abbattere.


