Oggi, 25 novembre, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne porta la faccia di Ana Bella Estevez, che della violenza buttatele addosso da un marito brutale s’è liberata prima scappando, poi adoperandosi per salvare le donne che ancora non erano riuscite a scappare come lei. Perché non avrebbe mai accettato di lasciare sole le altre, come sola si era trovata lei. E perché sapeva che solo guarendo anche le altre avrebbe guarito se stessa.
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Questa è la storia di Anna Bella Estevez, che adesso ha 48 anni e tiene il timone di una impressionante organizzazione che porta il suo nome, la Fundación Ana Bella e che, attraverso l’effetto moltiplicatore delle reti, continua a portare fuori dalla violenza migliaia di donne nel mondo, in Spagna, dove lei è nata, e nei Paesi di lingua spagnola, ma anche negli Stati Uniti, in Canada, in Romania (per avere un’idea dei volumi della violenza contro le donne, basta la sintesi dell’ultima, sconcertante indagine dell’Agenzia dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: il 33% delle donne europee ha subito violenza fisica e/o violenza sessuale dai 15 anni in su, il 43% violenza psicologica. E pochissime vittime hanno denunciato).
Da dove viene la forza di Ana
Tutto comincia un po’ di anni fa, all’alba di una mattina che non è come le altre perché Ana Bella, che suo marito ha quasi ucciso l’ultima volta che l’ha pestata, decide di prendere i suoi quattro figli piccoli e di fuggire da lì. Li mette nella macchina, va alla Polizia e denuncia il marito. Trova quindi un riparo momentaneo, ottiene un sussidio di 300 euro. Ana Bella è sfinita, sola, sfiduciata e ha paura ma nei mesi in cui, finalmente in salvo, ripercorre la sua storia di sopravvissuta intuisce che si salverà davvero se riuscirà a trasformare quella stanchezza in ricerca di riscatto, la solitudine in empatia, la sua salvezza nella salvezza di tutte le altre. Così, nel piccolo rifugio dove si è sistemata con i bambini, comincia a dare rifugio ad altre donne in fuga. Comincia anche a sistematizzare quell’intuizione forte che sente dentro e a condividerla con le donne che accoglie: bisogna fare del dolore l’energia con cui riprendersi la vita. Sceglie la sua parola-mantra: empowerment. E studia il modo di parlare della violenza rovesciandone i luoghi comuni: mai più vittime ma sopravvissute, mai più racconti dolenti ma esempi positivi. Quindi va in televisione e sui giornali, racconta tutto.
«Essere stata abusata non mi ha mai definito»
Le sue idee prendono piede, il suo metodo libera il potenziale di un numero crescente di sopravvissute, che a loro volta diventano attivatrici di cambiamento per altre. E la rete via via si allarga. Nel 2006 Ana Bella crea la fondazione con il suo nome. «Essere stata abusata non mi ha mai definito», racconta. «È qualcosa che mi è successo, ma non mi ha tolto ciò che valgo e io voglio che la società capisca questo». Poi, la Fondazione comincia a intrecciare accordi con grandi aziende e multinazionali, perché offrano una chance professionale che consenta alle donne di riprendersi la vita e di ritornare protagoniste del loro avvenire. La fondazione dice che tre milioni di donne nel mondo le hanno chiesto aiuto.
La speranza oltre il buio
Così Ana Bella Foundation racconta la portata sociale del loro impegno: “Ana Bella lavora con i media spostando l’attenzione dalla vittima all’aggressore e cambiando il modo in cui viene rappresentata la violenza domestica. Invece di mostrare immagini negative di donne disperate, deboli, violate, emarginate, fornisce esempi positivi di donne che vivono una vita nuova e felice come sopravvissute. Ana Bella sta dimostrando che i messaggi che trasmettono speranza e una via d’uscita plausibile sono più efficaci nell’incoraggiare le donne ad avviare un processo di separazione e denunciare il loro aggressore». L’ultima campagna in ordine di tempo riguarda il vertiginoso aumento delle violenza domestiche durante il Lockdown ed è una raccolta fondi per un piano di emergenza. “Forse sta capitando a tua mamma, a tua figlia, alla tua migliore amica”, dice Ana Bella nel suo video-appello, “ma tu non lo sai e loro non possono parlare perché le vittime sono chiuse dentro le case insieme ai loro carnefici. Ma come sopravvissute alla violenza noi abbiamo l’esperienza per riconoscere le vittime invisibili e l’empatia per aiutarle a liberarsi” .