I diritti e doveri attribuiti statutariamente a ciascun socio sono svariati e possono essere esercitati o eseguiti con intensità e maniere differenti in base all’ampiezza della previsione statutaria e al volere, rispettivamente, del socio avente diritto o obbligato.
Nondimeno, ove non sia sancita per legge l’inderogabilità di una particolare facoltà o di un determinato obbligo, i soci (o alcuni di essi) possono convenire di integrare, modulare e/o escludere le previsioni statutarie applicabili alla generalità delle partecipazioni sociali, introducendo una disciplina particolareggiata valevole nei confronti dei soggetti pattisti (e solo di questi) – ossia i soggetti aderenti al patto “parasociale” – e a questo volontariamente assoggettati.
I patti parasociali sono, per l’appunto, quelle convenzioni – ovvero quei contratti – mediante i quali i soci (o alcuni soci, eventualmente anche con non soci) regolano le singole posizioni personali all’interno della società, concordando, per esempio, un indirizzo comune e/o stabilendo i comportamenti a cui ognuno sarà tenuto (e le eventuali sanzioni a carico dei trasgressori), eventualmente anche in maniera difforme o complementare rispetto a quanto già previsto a livello statutario o, magari, limitatamente ad un determinato periodo temporale, allo scadere del quale le previsioni dello statuto riprenderanno pieno vigore.
Trattandosi di veri e propri contratti di diritto privato, i patti parasociali – ed è questo un importante tratto distintivo rispetto al patto sociale – producono effetti solamente tra le parti che li sottoscrivono (c.d. efficacia meramente obbligatoria).
I patti parasociali possono avere il contenuto più vario (purché non contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume) e riguardare posizioni amministrative, diritti patrimoniali o situazioni giuridiche passive. Quindi, accanto alle specifiche ipotesi di patti parasociali contemplate dall’art. 2341bis C.C. (che comprendono i cc.dd. sindacati di voto, di blocco e di controllo), la pratica degli affari ha dato origine a convenzioni che, come si evince dalle denominazioni anglofone, sono state importate da quei Paesi che vantano una lunga tradizione nel settore del venture capital e che, oramai possono considerarsi di uso comune anche in Italia.
In particolare: le anti-dilution clauses, le clausole di lock-up, i diritti di drag-along e tag-along, di liquidation preference ed exit; ma la gamma comprende anche, senza pretesa di esaustività, l’attribuzione di diritti di veto o l’assunzione di determinati obblighi di reportistica, l’assoggettamento ad obblighi di preventiva consultazione, l’adozione di norme particolari per la distribuzione di utili e perdite, accordi relativi alle cariche sociali, l’implementazione di piani di stock option e work for equity, previsioni in merito alla remunerazioni di alcuni soci lavoratori, divieti di concorrenza, patti di riservatezza, ecc.
Per concludere, si pone spesso il dubbio agli operatori, se introdurre una determinata previsione o, addirittura, l’intera convenzione particolareggiata nello statuto o, piuttosto, in un accordo avente natura parasociale. Nel decidere quale soluzione adottare occorrerà tenere in considerazione – inter alia – l’azionabilità di dette previsioni (che come detto, se disciplinate a livello parasociale, avranno efficacia meramente obbligatoria) ed anche l’opportunità che tali accordi siano oggetto di “disclosure”; invero, all’infuori dei casi in cui la pubblicità sia richiesta per legge, il contenuto e finanche l’esistenza stessa dei patti parasociali possono essere coperti da un accordo di riservatezza; di contro, allo statuto, ed alle sue eventuali modifiche, dovrà essere data pubblicità con l’iscrizione al Registro delle Imprese.