Il contingente cubano ha affrontato l’Ebola in Africa e il colera ad Haiti, parliamo di quell’internazionalismo medico che Cuba porta avanti da anni. 55mila dottori sono intervenuti in 67 paesi diversi, nelle emergenze di cui parlano tutti e in quelle di cui non parla nessuno.
Con una benvenuta dose di ironia, il contingente di medici cubani atterrato a Milano Malpensa e dislocato a Crema per l’emergenza coronavirus porta il nome di un americano. Si chiama Brigada Henry Reeve, un newyorkese che da giovane suonava il tamburo durante la Guerra civile americana e che fu uno degli eroi della prima guerra d’indipendenza cubana, tra il 1868 e il 1878.
Lo chiamavano Enrique El Americano, si sparò prima di essere catturato dagli spagnoli ed è a lui che Fidel Castro ha intitolato il gruppo di medici viaggianti che negli ultimi anni ha inseguito emergenze sanitarie in mezzo mondo, il Contingente Internacional de Médicos Especializados en Situaciones de Desastres y Graves Epidemias. I 63 dottori non erano attrezzati al freddo di questa coda di inverno padano, e a Crema hanno ricevuto giacconi e felpe dai negozi locali, ma per il resto sono letteralmente pronti a tutto.
La Henry Reeve ha affrontato l’Ebola in Africa e il colera ad Haiti, le conseguenze di terremoti e uragani, sono l’avanguardia di quell’internazionalismo medico che Cuba porta avanti da anni, i first responder del mondo, 55mila dottori che sono intervenuti in 67 paesi diversi, nelle emergenze di cui parlano tutti e in quelle di cui non parla nessuno. A gennaio sono stato in Sahara Occidentale, uno dei posti più dimenticati del globo, e in tutti gli ambulatori ci sono le foto di Che Guevara, per decenni anche qui i cubani hanno curato, portato farmaci, montato attrezzature, fatto formazione.
#Coronavirus, arrivati a #Malpensa 37 medici e 15 infermieri cubani. #Cuba pic.twitter.com/xggOiUSeYZ
— Ospedale Bambino Gesu FanPage (@PediatriaOggi) March 22, 2020
L’intervento per l’emergenza Ebola
L’intervento più noto dei medici cubani, e forse il più utile in termini di esperienza per gestire il Covid-19, è stato in Africa per l’emergenza Ebola, quando quasi 500 sbarcarono in Liberia, Guinea e Sierra Leone, «in netto contrasto con l’atteggiamento dei governi occidentali, per i quali la priorità era fermare l’epidemia ai confini piuttosto che curarla in Africa occidentale», come ha scritto Monica Mark nel 2014 sul Guardian. Sul campo nei primi mesi dell’emergenza c’erano le Ong, un contingente dell’Unione africana e – appunto – i cubani. Seguendo il loro esempio, e dopo le sollecitazioni dell’ONU, arrivarono 65 americani, un gruppo di britannici e attrezzature dal Giappone e dall’India. Il sito dell’OMS racconta l’esperienza da sopravvissuto di Felix Sarria Baez, che nel 2014 ha contratto l’Ebola in Sierra Leone, è stato trasferito a Ginevra con un volo sanitario, è stato in fin di vita all’Hôpitaux Universitaires, è sopravvissuto, e quando si è rimesso in piedi è tornato in Sierra Leone per continuare e finire il lavoro.
Il colera ad Haiti
Un altro capitolo di questa storia è ambiento ad Haiti, dove i professionisti sanitari cubani erano presenti dal 1998 e arrivano a essere 6mila nel terrificante anno 2010. Dopo la catastrofe combinata di terremoto e colera portarono sollievo a tre milioni di haitiani, curarono 76mila casi di colera, fecero 8700 interventi chirurgici e 111mila vaccinazioni, contornati da ampi interventi di formazione ai medici locali e alla popolazione sulle regole igieniche per prevenire la malattia. Sono numeri che nessun altro contingente internazionale ad Haiti ha nemmeno sfiorato. Furono proprio i medici cubani i primi a individuare il colera, che ad Haiti non era mai stato endemico prima del terremoto ed era stato causato involontariamente dagli scarichi di una missione delle Nazioni Unite. Era la prima epidemia moderna di colera su larga scala (purtroppo superata dai numeri di quella in corso nello Yemen). Se andiamo indietro nel tempo, alla fine degli anni ’80 – proprio mentre l’Unione Sovietica implodeva – nell’ospedale di Tararà, non lontano da Havana, furono curati 21mila bambini e 4mila adulti ucraini colpiti dalle radiazioni di Chernobyl.
Un sistema sanitario evoluto
L’internazionalismo medico cubano, la cui data di inizio è il terremoto di Valdivia in Cile del 1960 (un anno dopo la rivoluzione), non è ovviamente solo una questione di buon cuore, ma anche di diplomazia e relazioni internazionali, oltre a essere uno dei principali export cubani nel mondo. Cuba ha un sistema sanitario evoluto, con una ratio medici / pazienti a livelli occidentali. Mentre gli interventi umanitari sono pro bono, il paese usa il surplus di dottori per inviarli dove c’è carenza, e non si tratta solo di paesi in via di sviluppo, ma anche di nazioni che possono pagare, come Arabia Saudita e Qatar. Ne ha inviati 11mila in Brasile, dove c’era una grave carenza di personale in alcune regioni del Nord Est, in cambio di una fee per ogni dottore.
Il 20% dei medici cubani lavora all’estero, circa la metà in Venezuela, dove c’è un programma strutturato di scambio tra barili di petrolio e professionisti sanitari. Si tratta di una leva economica che porta al governo circa 8 miliardi di dollari all’anno. La base operativa, dove si formano i first responder come quelli arrivati a Crema, è un centro di eccellenza mondiale, la Escuela Latinoamericana de Medicina (ELAM) dell’Avana, fondata nel 1999, dove arrivano allievi da ogni parte del mondo, Stati Uniti compresi. Nel 2016 Wired ha raccontato la storia degli studenti americani di medicina sbarcati a Cuba in fuga dalle rette universitarie statunitensi (e relativi debiti a vita). Anche l’ELAM è una sofisticata leva diplomatica, sono le ambasciate cubane nel mondo a valutare le candidature e offrire le borse di studio. «È l’unico posto al mondo nel quale se sei povero, donna o vieni da una popolazione indigena hai un vantaggio», disse l’allora direttore generale dell’OMS Margaret Chan.