Un giornalista sudcoreano ci ha raccontato pregi, vantaggi e difetti del più radicale sistema di controllo dell’epidemia usato in una democrazia
«Non spetta a me dire quando sarà pronta l’app. È importante che ci assicuriamo, prima di metterla in mano agli italiani, che funzioni in piena sintonia con il Sistema Sanitario Nazionale», ha spiegato Luca Ferrari, amministratore delegato di Bending Spoons, la software house che sta sviluppando Immuni, l’applicazione che le istituzioni hanno deciso di usare per controllare l’epidemia nella Fase 2. «L’app andrà usata per mesi», ha aggiunto. Ancora non conosciamo i dettagli, ma sappiamo che – dopo un iniziale tentennamento – non sarà né obbligatoria, né quasi obbligatoria, anche se per la sua efficacia è necessario che la usino almeno il 60% degli italiani.
La strada tracciata dalla Corea del Sud
È alla Corea del Sud e al suo sistema di contact tracing che tanti paesi occidentali hanno inizialmente guardato come modello per usare la tecnologia come strumento per contenere l’epidemia e convivere con il coronavirus. «Un esperimento radicale», lo ha definito il New Yorker in un lungo reportage. In base a quello che sappiamo della strada italiana, possiamo già stabilire che da noi praticamente niente sarà come in Corea del Sud, l’unica cosa in comune sono gli smartphone. In Italia non ci sarà nessuna forzatura digitale dei diritti dei cittadini. Abbiamo contattato Max S. Kim, l’autore del racconto dalla Corea, per farci spiegare com’è vivere in un sistema così radicale come quello coreano.
Innanzitutto, spiega Kim, «La Corea del Sud non ha un’app istituzionale per fare contact tracing. L’unica app è quella per l’auto-isolamento che devono usare soltanto i pazienti, cioè cittadini che sono risultati positivi al virus e che si trovano in quarantena». Il governo fa il contact tracing e ricostruisce le catene di contagio non con un’app in stile Immuni ma grazie alla combinazione di test ai cittadini e dati smart per tracciarli. La politica aggressiva sui tamponi, fatti a tappeto alla popolazione, permette di conoscere in tempo reale l’andamento del contagio. Chi è positivo si mette in quarantena e scarica l’app per farlo. E intanto il governo rintraccia tutti quelli che possono essere stati contagiati, attraverso una piattaforma di analisi dei dati, chiamata in inglese Epidemic Investigation Support System. «È un sistema basato sulle tecnologie di smart city, che il governo ha adattato per il contenimento dell’epidemia». I cittadini non sono chiamati a scaricare l’app, come dovremo fare noi nella Fase 2. «Il sistema è un software che gli investigatori epidemiologici usano per analizzare movimenti di carta credito, pagamenti digitali, GPS, registri di viaggio, ogni informazione disponibile per ricostruire i movimenti dei pazienti e incrociarli con quelli degli altri cittadini». In sostanza, il governo coreano sa già dove si trovano e chi incontrano i suoi cittadini e non ha bisogno di una app come Immuni per ricostruirlo.
In pratica, se una persona si rivela positiva al Covid-19, attraverso questa architettura di dati si riesce a risalire alle persone che può aver incrociato nei bar, sui treni, nei supermercati. Persone che lasciano continuamente tracce digitali nelle smart city coreane. Questo è un aspetto decisivo di questo modello di tracing: i dati sui movimenti e sugli incroci tra cittadini c’erano già e sono stati solo messi al servizio del contenimento dell’epidemia. «Non c’è opt out dal sistema», spiega Kim, «Se ne è parte per legge e non si può uscirne». Se ho fatto colazione nello stesso bar dove lavora un barista che si è infettato, il governo lo sa perché ho pagato lì con un’app o con la carta di credito, mi contatta e verifica se è il caso di fare un tampone anche a me. Da questo punto di vista è decisivo il fatto che la Corea del Sud avesse dovuto confrontarsi con focolai di SARS e MERS ed era quindi già strutturata a gestire un’epidemia.
Un app solo “tecnicamente volontaria”
L’app della quarantena (l’unica app istituzionale che c’è in Corea del Sud) invece viene installata solo sugli smartphone delle persone positive al tampone e serve sostanzialmente per assicurarsi che rispettino le regole dell’isolamento. «È tecnicamente volontaria, anche se il governo sta valutando di renderla obbligatoria. A chi non può usarla, per esempio gli anziani senza smartphone, viene assegnato un ufficiale di controllo. Tutti gli stranieri che entrano nel paese dagli aeroporti devono invece scaricarla obbligatoriamente, per legge». Nell’ecosistema digitale coreano ci sono però delle app di tracing. Sono state create dagli sviluppatori privati, sulla base dei dati pubblici a loro disposizione. Queste app sono utili non ai positivi ma a chi vuole evitare il contatto con i contagiati. La più popolare di queste si chiama Corona100, che ha superato il milione di download, ma ce ne sono diverse e funzionano tutte allo stesso modo: elaborano i dati smart di cui sopra per avvertire le persone se stanno per entrare in contatto con un infetto, in un raggio geografico di circa 100 metri. Durante l’epidemia c’è stato un tale fiorire di app di questo genere che sia Apple che Google hanno dovuto mettere dei limiti e dei parametri precisi (come un vaglio governativo o OMS) per quello che si poteva far scaricare sui loro store.
Trasparenza sull’uso dei dati
«Ci sono state diverse voci anche in Corea del Sud di persone preoccupate per le violazioni della privacy», spiega Kim, «Ma in generale la popolazione ha accettato di buon grado gli sforzi del governo di contenere il contagio». I coreani hanno dovuto a rinunciare a parte della propria libertà, ma in cambio hanno avuto due risultati. «Il primo è stato evitare i lockdown di massa», con relative conseguenze sull’economia e sulla salute mentale delle persone. «Il secondo sono i risultati di contenimento dell’epidemia». La terza condizione è stata una «trasparenza estrema da parte del governo su come vengono usati i dati e gestita l’epidemia». Non tutto è andato per il verso giusto. «Le amministrazioni locali rendono noti i tragitti delle persone contagiate, i dati sono anonimi, senza nome o indirizzo, ma in teoria con un po’ di ricerca a volte è possibile capire di chi si tratta». Diverse persone si sono trovate esposte, denunciate e insultate su gruppi Facebook per il fatto di essere state contagiate. «Da quanto ne so, si tratta solo di piccoli incidenti locali».