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Lunedì 12 ottobre non perdetevi la nostra Live dedicata al progetto “Biotech, il futuro migliore”. Pierluigi Paracchi, founder e ceo di Genenta Science, e Federica Draghi, investment director in Genextra, ci introducono ai temi che verranno discussi
“Uno degli errori più gravi è associare l’investimento in technology transfer con il seed capital. L’investimento nel tech transfer non è un grant”. A sottolinearlo è Pierluigi Paracchi, founder e ceo di Genenta Science, che sarà ospite della quarta puntata speciale di StartupItalia Live dedicata al progetto “Biotech, il futuro migliore – Per la nostra salute, per il nostro ambiente, per l’Italia”, che avrà luogo lunedì 12 ottobre, con un focus sui temi del technology transfer (TT) e del finanziamento a startup e PMI innovative. Per chi avesse perso le prime tre puntate (qui potete recuperare la prima, qui la seconda e qui la terza), ricordiamo che “Biotech, il futuro migliore” è un progetto promosso da Assobiotec Federchimica in partnership con StartupItalia, che tra giugno e ottobre prevede quattro appuntamenti preparatori a un grande evento finale, il 9 novembre 2020, per raccontare il ruolo e l’importanza delle biotecnologie, sia per la capacità di migliorare le nostre vite sia come asset strategico su cui puntare per il rilancio e in generale il futuro del Paese.
Il format prevede quattro speciali di StartupItalia Live – sulle nostre pagine Facebook, LinkedIn e YouTube – alle quali partecipano diversi ospiti moderati da Giampaolo Colletti, manager e giornalista su molte testate nazionali, tra cui anche StartupItalia. Le sessioni live hanno l’obiettivo di divulgare i principali messaggi emersi nelle riunioni, a porte chiuse, dei gruppi tecnici di lavoro, che si svolgono precedentemente tra gli associati di Assobiotec, gli stakeholder del settore e le Istituzioni. L’evento conclusivo, previsto per il 9 novembre, diventerà anche l’occasione per presentare un Manifesto e, soprattutto, un Documento di posizione, con proposte operative per la crescita e lo sviluppo del settore, da mettere a disposizione del governo italiano. Lunedì 12 ottobre, dunque, il progetto compie la sua quarta e ultima tappa con un tavolo di lavoro e una nuova puntata speciale di StartupItalia Live, questa volta dedicati al tema “Investire nel futuro”. Paracchi coordinerà la parte del tavolo di lavoro dedicata al tech transfer, al quale parteciperà anche come relatore, mentre Federica Draghi – investment director in Genextra – coordinerà quella relativa agli investimenti, dove sarà relatrice.
Il technology transfer in Italia
“L’assunzione comune che ritiene il TT, una fase articolata e rischiosissima, in linea con investimenti di poche decine o centinaia di migliaia di euro per arrivare a un proof of concept è sbagliata”, spiega Paracchi a StartupItalia. “Viene sottovalutata tutta la parte relativa allo sviluppo della ricerca e dell’innovazione, che necessita di persone di esperienza con competenza industriale, avendo chiaro fin da subito come impostare tutto il processo di sviluppo”. Al riguardo, per chiarire la questione, il ceo di Genenta Science tira in ballo la sigla R&D, dove la R di ricerca è coperta al meglio in Italia, grazie alla qualità dei nostri ricercatori e all’intensa produzione scientifica – con punte di eccellenza che ci vengono riconosciute in tutto il mondo – e quindi “è la D di development a costituire un’enorme sfida, è lì il tech transfer: bisogna traslare la R in quella D, ovvero compiere al meglio il passaggio tra research e development”.
Ma qui risiedono anche le nostre criticità. Secondo il nuovo rapporto su Le imprese di biotecnologia in Italia – realizzato grazie alla collaborazione tra Assobiotec ed ENEA -, nonostante l’impegno e la dedizione, gli uffici di trasferimento tecnologico (UTT) scontano un evidente sottodimensionamento in termini di risorse e addetti: per ogni struttura, infatti, sono attivi mediamente solo 4,2 addetti al trasferimento della conoscenza, mentre se ne contano ben 8,5 nelle analoghe strutture estere. Un dato confermato dallo stesso Paracchi, che aggiunge la scarsa presenza negli UTT di personale senior con esperienza industriale pluriennale, un’esperienza di almeno 10 anni nella fase di sviluppo. “Ma queste risorse scarseggiano, soprattutto in Italia, bisogna attrarle con dimensioni adeguate di investimento. Per averle a bordo, dobbiamo offrirgli compensi competitivi e budget commisurati che le mettano nelle condizioni di lavorare al meglio per periodi medio-lunghi”. Insomma, si tratta di una questione di capitali, ma anche e soprattutto di risorse umane. “I capitali pubblici, quelli dei grant e delle charity, arrivano fino a un certo punto. Se vogliamo sviluppare un prodotto, servono competenze manageriali e imprenditoriali, bisogna saper gestire uno spin-off, che è una società e non altro, o saper dialogare con le grandi società. In Italia, in base alla mia esperienza, un ricercatore tende all’‘auto-congelamento protettivo’ nell’incontro con un imprenditore o un venture capitalist, ciò poiché non riesce a decodificare bene il loro linguaggio”, prosegue Paracchi.
“Nel nostro Paese, inoltre, scontiamo una certa cultura antiscientifica, per cui l’innovazione viene vista con una certa diffidenza. Diventa quindi difficile far dialogare le buone idee con la finanza”. Per colmare questi gap, l’Italia ha finalmente deciso di intraprendere alcuni importanti passi lungo la traiettoria della politica dell’innovazione. In particolare, sono stati varati alcuni bandi e iniziative con gli obiettivi di facilitare l’incontro tra ricercatori e imprese, portare gli sviluppi della ricerca a uno stadio più vicino all’applicazione industriale, e formare figure specifiche come quelle dei manager dell’innovazione. Paracchi, a questo proposito, sottolinea anche un altro aspetto: “Oggi pare siano disponibili capitali importanti per il TT – basti guardare a ENEA Tech e CDP Venture – ma occorre avere il coraggio di concentrarsi sulle eccellenze, perché queste fanno da traino per creare i campioni nazionali dell’innovazione, che assumono personale, generano valore e lanciano un settore”.
Gli investimenti nel settore Life Science
“In Italia abbiamo davvero pochissime storie di startup biotech, che poi si sono evolute e maturate in ‘big biotech’”, spiega a StartupItalia Federica Draghi, anche lei ospite della quarta puntata speciale di StartupItalia Live, dedicata al progetto “Biotech, il futuro migliore”. “Il motivo principale deriva chiaramente dall’assenza di fondi privati, in grado di supportare le fasi più avanzate dello sviluppo”. Dall’ultimo rapporto su Le imprese di biotecnologia in Italia, emerge che l’80% dell’industria biotech è costituito da imprese di piccola e micro dimensione. Le principali fonti di finanziamento anche per le imprese biotecnologiche sono l’autofinanziamento – utili non distribuiti – e i crediti bancari. Data l’alta intensità di ricerca del settore, a giocare un ruolo rilevante sono anche le sovvenzioni e i contributi a fondo perduto, soprattutto per i progetti di ricerca. E non è trascurabile, rispetto al passato, un maggior ricorso a canali di finanziamento innovativi, come l’equity crowdfunding, oltre a business angels (dallo 0,9% al 2,4%) e fondi di venture capital (dallo 0,4% al 2,1%).
Nello specifico, riguardo agli investimenti di VC, in Italia a fine 2019 sono state registrate 25 operazioni di finanziamento per un totale di circa 152 milioni di euro, collocando il nostro Paese come destinatario del 5% degli investimenti europei e dell’1% di quelli globali. “Anche se la situazione è migliorata negli ultimi anni, gli investimenti di VC rimangono bassi, ma soprattutto si tratta di una tipologia di fondi che riesce a sostenere le società solo nelle prime fasi”, continua Draghi. “Per permettere alle startup innovative che operano nel settore delle Life Science di crescere e consolidarsi, è necessario creare un sistema per cui queste – che magari sono anche riuscite a realizzare la sperimentazione di fase 1 – trovino i finanziamenti per sostenere le fasi successive, altrimenti le aziende partono già con l’idea di vendere la società alla prima proof-of-concept clinica nella speranza di venderla a un operatore strategico del settore estero, come una grande multinazionale farmaceutica. E’ necessario, invece, alimentare un ecosistema in cui una startup con l’ambizione di crescere abbia un ventaglio di fonti a cui attingere per reperire le risorse finanziarie che servono ad arrivare – perché no – alla commercializzazione di un prodotto, e mi riferisco a fondi VC di dimensioni più grandi, a un mercato pubblico che abbia appetito per questo tipo di titoli e a una maggiore presenza sul territorio di operatori strategici interessati a formare partnership o acquisizioni”. Al momento, questi elementi sono largamente assenti dal panorama italiano. E, quindi, cosa succede? “Le aziende arrivano fino a un certo punto e poi vanno a cercarsi i fondi all’estero: si creano una filiale negli Stati Uniti, provano a quotarsi al Nasdaq e cercano un’acquisizione con uno strategico prevalentemente statunitense”.
Del resto, i numeri parlano chiaro: secondo il rapporto “Biotech in Europe: A strong foundation for growth and innovation” di McKinsey & Company, le società biotech USA prendono 5 volte il private funding che prendono quelle europee, mentre le IPO al Nasdaq – per capitale raccolto – sono 3 volte più grandi di quelle del Vecchio Continente. Da rilevare, inoltre, che dal 2012 una società biotech europea su tre va a quotarsi negli Stati Uniti. Quindi, i principali ostacoli allo sviluppo di tante promettenti realtà nazionali nel settore Life Science derivano soprattutto dalla possibilità di raccogliere capitali in grado di sostenerne lo sviluppo più avanzato. Se, ad esempio, andiamo a guardare gli investimenti di VC, come emerge dal rapporto di Assobiotec ed ENEA, in Italia il taglio medio si attesta intorno ai 6 milioni di euro, a fronte della media europea di 20 milioni di euro. “Queste cifre non consentono di sostenere fasi cliniche con un certo numero di pazienti, come una fase 2 o una fase 3. Se si vuole investire in una biotech che sviluppa un farmaco oppure un diagnostico, bisogna partire da almeno 20-25 milioni di euro solo per arrivare a una prima validazione clinica, ma poi ne serviranno molti altri. Il problema è proprio l’ordine di grandezza”, sottolinea Draghi.
“In realtà basterebbero una manciata di storie di successo, di startup che diventano ‘big biotech’, per attirare l’interesse di investitori privati di dimensioni maggiori, non necessariamente specialisti del settore, e innescare il circolo virtuoso ‘+fondi = +valutazioni = +indotto per il settore = +attrattività…’ di cui il biotech italiano ha bisogno. Ma il Paese deve dare l’impulso iniziale, stimolando la creazione di fondi VC specializzati in grado di sostenere investimenti di maggiori dimensioni. Il mio auspicio, quindi, è che i rappresentanti delle istituzioni, presenti al prossimo tavolo di lavoro, comprendano l’importanza di coltivare un forte ecosistema dell’innovazione – basta guardare a cosa ha fatto la Francia negli ultimi anni, soprattutto sulla incentivazione agli investimenti, o cosa è avvenuto a Basilea, ormai l’hub biotech più importante d’Europa – che possa fare da volàno alla crescita del Paese”.
Vi aspettiamo lunedì 12 ottore a StartupItalia Live per approfondire questi temi
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