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La comunicazione e il linguaggio antidiscriminatorio non possono prescindere dal mettere la condizione in secondo piano per privilegiare la persona. E’ il concetto principale espresso nell’articolo precedente a questo per introdurre termini, comunicazione e comportamenti corretti. La strada per arrivare a un glossario preciso delle parole corrette da utilizzare riguardo alla disabilità e a ciò che ci gira intorno parte da queste considerazioni e approfondimenti. Ecco allora due della parole chiave: Persona e Abilità.

 

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Persona

Fondamentale: al centro è la persona (la bambina, il ragazzo, l’uomo, la donna ecc.). La sua condizione, se servisse indicarla, viene dopo. Ecco dunque che il termine corretto per indicare chi vive in condizione di disabilità è proprio questo: persona con disabilità. Gli anglosassoni utilizzano il singolare: “person with a disability”, perché il plurale significherebbe che sono presenti più condizioni che portano a disabilità. In italiano, essendo il termine sia singolare che plurale non abbiamo bisogno di mettere l’articolo. Il resto viene di conseguenza. La persona (la bambina, il bambino, la ragazza, il ragazzo, l’uomo, la donna, l’atleta ecc.), dunque, al primo posto. Questa è una delle indicazioni fondamentali che giungono dalla “Convenzione Internazionale sui diritti delle persone con disabilità” (New York, 25 agosto 2006, firmata e nel 2009 ratificata, e quindi legge, dallo Stato Italiano). Non disabile, parola che spesso viene usata. Infatti può essere usato, anche se si potrebbe fare meglio non usandolo del tutto, come aggettivo, non come sostantivo. Utilizzabile, invece, il termine “disabili” al plurale: si indica un gruppo, come gli scolari o i politici. Nemmeno dunque altri termini: handicappato (ma lo usa ancora qualcuno?), portatore di handicap (come se avesse quel fardello, l’handicap, da portarsi appresso), invalido. Già, invalido: quante volte, troppe, sentiamo questa parola usata in vari contesti, specie quello giuridico e legislativo. Letteralmente una persona che non è valida.

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Il 10/15 per cento della popolazione mondiale (e la stima è nettamente per difetto) ha qualche forma di disabilità, quindi non è valido. “Diversamente abile” o “diversabile” (dall’inglese “differently abled” rilanciato in Italia agli inizi di questo secolo da Claudio Imprudente, animatore storico del Centro Documentazione handicap di Bologna, le cui riflessioni sono sempre interessanti) hanno avuto forse una valenza anni fa, ora non più. Occorre sempre tenere presente la cultura della diversità, che ci permette di apprezzare e valorizzare ogni persona, con le proprie peculiarità personali. La diversità è caratteristica di ognuno, non legata in particolare alla disabilità. Se si parla di sport, atleti paralimpici è consigliabile, anche riferito a quegli sport che non sono presenti alla Paralimpiade, come accade in Italia, mentre in altri Paesi, e all’interno dello stesso Comitato Paralimpico Internazionale, questo non accade. Importante approfondire questo argomento perché lo sport ha dato una spinta fondamentale all’attenzione al linguaggio corretto. Negli Stati Uniti, sono diverse le associazioni che lavorano sul linguaggio, anche nel settore sportivo. Special Olympics, organizzazione mondiale che si occupa di attività sportiva e ludica dedicata a persone con disabilità intellettiva e relazionale nata nel 1968 per iniziativa di Eunice Kennedy Shriver, si è fatta promotrice di una campagna per l’abolizione della parola “retarded”, ritardato (www.r-word.org), che è stata ripresa da tutte le associazioni nazionali di SO.

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Abilità

E’ la parola chiave del cambiamento. In questo la comunicazione e il linguaggio corretto diventano fondamentali. La cultura delle abilità: cominciamo a entrare in questo modo di pensare la società. Lo sport e l’arte sono i due ambiti dove questo avviene e dai quali meglio si riesce a entrare in questa nuova fase culturale, che porta al cambiamento sociale. Allora proviamoci: visto che torniamo ad avvicinarsi a una Paralimpiade, in quell’ambito e nello sport in generale, togliamo quel “dis”. Le abilità in primo piano. Non ci sono persone disabili, ma solo persone abili, ognuno per la propria condizione. Atleta paralimpico può bastare (e lo spiegheremo anche in un capitolo successivo), proprio perché si parla di sport.

 

Guardare le abilità vuol dire uscire dal pregiudizio. Esaltare la persona nella pienezza della sua esistenza. Lo sport paralimpico diventa fondamentale in questo passaggio alla cultura delle abilità. Semplificando molto, perché approfondiremo anche questo argomento: nel secolo scorso si è transitati dalla cultura della disabilità (riconosco che all’interno della società vi sia la disabilità e che vi siano persone che vivono)a quella della riabilitazione (provo a fare in modo che una persona con disabilità ne acquisisca, ma prendendo chi non ha disabilità come riferimento) a quella dell’integrazione (cerco di fare in modo che chi ha disabilità sia inserito all’interno del contesto sociale) e successivamente dell’inclusione (a chi ha disabilità sono riconosciuti pari diritti e pari opportunità di qualsiasi altra persona, anche se la società rimane non costruita per chi ha disabilità). Ora l’obiettivo è entrare nella cultura delle abilità: guardare alle abilità delle persone, ognuna con la sua condizione e diversità. In questo modo, si valorizza la persona così come essa è e per quello che può esprimere: ognuno, secondo la sua condizione, è risorsa per la comunità. Ecco il passaggio che la società deve fare e lo sport in questo ha un ruolo importante: eliminarere le parole disabilità, riabilitazione, integrazione, inclusione. Pensare e guardare alle abilità, quelle di ognuno secondo le sue capacità. E’ il grande messaggio culturale e sociale dello sport paralimpico e della Paralimpiade in particolare. Cogliamolo per cambiare il mondo. (2 continua…)