I primi che ci sono venuti in mente. Ma la lista è lunga
Usando un modo di dire molto in voga sui social, forse la situazione è sfuggita di mano. L’ultimo caso di cancel culture riguarda Biancaneve e i sette nani, uno dei capolavori Disney datato 1937. Nel parco gioco di Disneyland in California, riaperto dopo mesi di chiusure e già per questo ci sarebbe solo da essere felici, sarebbe scoppiata una nuova polemica attorno alla giostra dedicata alla protagonista, battezzata “Snow White’s Enchanted Wish”, il desiderio incantato di Biancaneve. Come si legge sul Post, un sito di San Francisco avrebbe voluto fare polemica attorno a una sterile questione: il bacio del principe che fa risvegliare la giovane, uccisa con l’inganno dalla terribile strega, non è stato consensuale, non è il vero desiderio della ragazza e quindi non può essere definito vero amore. A
Leggi anche: Anche i topi piangono. Disney, in rosso, chiude i negozi e punta sull’ecommerce
Cancel culture: i casi più eclatanti
La lista delle opere d’arte, film e cartoni animati colpiti dall’ubriacatura della cancel culture si aggiorna di anno in anno. E ha perfino convinto piattaforme come Disney a farsene paladina: se infatti fate partire Gli Aristogatti o Peter Pan su Disney+ l’azienda costringe gli spettatori a leggere quanto segue. «Questo programma include rappresentazioni negative e/o trattamenti errati nei confronti di persone o culture. Questi stereotipi o comportamenti erano sbagliati allora e lo sono oggi. La rimozione di questo contenuto negherebbe l’esistenza di questi pregiudizi e il loro impatto dannoso sulla società. Scegliamo invece di trarne insegnamento per stimolare il dialogo e creare insieme un futuro più inclusivo».
Leggi anche: Oscar 2021: le statuette premiano lo streaming di Amazon e Netflix
Tutti quanti…tutti quanti…
Difficile dimostrare che un cartone animato come Peter Pan, dove il ragazzo che non vuole mai crescere chiama gli indiani pellerossa, sia anche solo in parte responsabile di un giudizio razzista. Così come è azzardato dire che mentre da bambini cantavamo “Tutti quanti voglion fare jazz!” avremmo in realtà accettato passivamente la rappresentazione stereotipata di un gatto asiatico (e ci sarebbe anche quello russo, di cui nessuno parla).
Povero Apu
Ma non c’è soltanto il mondo Disney ad essere stato messo sulla graticola dalla cancel culture per presunti casi di razzismo o pregiudizi. Di recente Matt Groening, il papà dei Simpson, è stato attaccato per via della rappresentazione stereotipata del negoziante indiano Apu. La polemica è stata talmente aspra che il doppiatore americano del personaggio, Hank Azaria, ha deciso di dimettersi e scusarsi con tutti gli indiani del mondo.